Michele Giordano, presidente dell’Associazione Apicoltori della Provincia di Salerno, è un cilentano di Novi Velia e ci tiene a sottolineare l’importanza dell’allevamento delle api per il benessere dell’ambiente naturale nel suo complesso e, in particolare, per quello degli animali allevati in Cilento – bovini, ovicaprini, suini, etc. – che vengono allevati al pascolo brado e semi brado. L’impollinazione delle api ha un’importanza fondamentale per la biodiversità e la riproduzione delle erbe di qualità che questi animali mangiano.
Alessandro Scassellati (AS): Salve a tutti. Siamo con Michele Giordano di Novi Velia che è il presidente dell’Associazione Apicoltori della Provincia di Salerno, un’associazione che fa parte del Gruppo Volape che è una grande associazione nazionale che raggruppa, attraverso Miele in Cooperativa, circa il 30% delle arnie che ci sono in Italia, ossia delle cassette con una famiglia di api che fa il miele.
Con Michele vorrei parlare delle api in relazione agli allevamenti zootecnici e in particolare al pascolo. L’ape è un elemento essenziale per l’impollinazione di quasi tutte le varietà vegetali, dagli alberi da frutta alle erbe che fanno i fiori. Quindi, le api sono un elemento essenziale per la riproduzione delle varie varietà della flora, che attraverso l’impollinazione delle api, possono produrre dei frutti che al loro interno contengono uno o più semi, in modo da potersi riprodurre.
Ragionare sul ruolo dell’allevamento delle api, pertanto, credo che sia importante, perché uno dei temi che è emerso forte dalle mie interviste è quello del degrado dei pascoli, legato a pratiche di sovrapascolamento e di errato di sfruttamento del pascolo stesso, oltre che ad una mancanza di azioni migliorative. Come gli umani, gli animali scelgono quello che vogliono mangiare e quindi mangiano e cercano di mangiare il più possibile quelle piante ed erbe che a loro piacciono, lasciando le altre, quelle che a loro piacciono meno o per niente. Se l’animale sceglie e sta sullo stesso pascolo troppo a lungo, poi si verifica che le piante che gli piacciono vengono sovrasfruttate e muoiono, mentre si riproducono molto più facilmente quelle che a loro non piacciono, perché arrivano a fare il fiore e il seme. Alla lunga, quindi, il pascolo si degrada per la proliferazione delle piante ed erbe infestanti, che sono poi in gran parte le piante che agli animali non piacciono o piacciono poco.
Michele vorrei che tu facessi un ragionamento su questo tema e anzi, prima ancora, vorrei che tu dicessi qualcosa sul fatto che la zootecnia animale e l’apicoltura sono tutte e due forme di allevamento, c’è solo una differenza di specie, però l’uomo è sempre il soggetto che si prende cura, che alleva, in questo caso degli insetti che, tra le altre cose, negli ultimi anni in termini di sopravvivenza hanno delle serie difficoltà, dovute sia all’inquinamento sia ai cambiamenti climatici. C’è un agricoltura industriale che prolifera e che usa sostanze chimiche, come i nicotinoidi, che sono la prima causa di morte degli insetti, in generale, e delle api e di tutti gli altri impollinatori, in particolare.
Michele Giordano (MG): Grazie Alessandro per avermi invitato in questa tua puntata di presentazione della zootecnia all’interno dell’area del GAL Casacastra. Io rappresento una associazione degli agricoltori che, come tu hai ben detto prima, raggruppa circa 200 allevatori in provincia di Salerno. Siamo strutturati “abbastanza bene”, perché riusciamo ad avere un buon rapporto. Prima l’apicoltore era considerato uno che aveva i segreti, cioè ciò che faceva nelle sue arnie non lo rivelava a nessuno, mentre oggi grazie a questa associazione possiamo dire di avere un po’ mitigato questo effetto che c’era in precedenza.
Come tu dicevi l’apicoltura è a tutti gli effetti un’attività agricola e rientra nell’allevamento zootecnico, perché noi alleviamo api. A differenza di una zootecnia fatta con animali di taglia più grossa, diciamo così, la cosa che noi non possiamo guidare sono le selezioni che avvengono in modo diverso. Le nostre sono delle selezioni massali, quindi fatte su un certo numero di alveari dove si vanno a cercare determinati caratteri, però la cosa importante, che tengo a sottolineare, è lavorare con un’ape che sia autoctona. L’ape autoctona per eccellenza in Italia è stata, è e dovrebbe essere anche in futuro, è la ligustica che è un’ape che ha impiegato migliaia di anni per potersi adattare a quello che è il nostro territorio, il nostro clima e la nostra flora.
AS: Su questo, scusa Michele, giusto un inciso. C’è esattamente un problema analogo rispetto alle popolazioni zootecniche degli animali di taglia maggiore che abbiamo in Cilento, da questo punto di vista. Parliamo di una popolazione di capre che si chiama cilentana nera e fulva, c’è anche la podolica che è una varietà di bovini, poi c’è anche il maiale nero che è diventato sempre più difficile da incontrare. Poi, ci sono delle specie ovine che non sono necessariamente autoctone, ma che sono presenti sul territorio da tanti anni, come la bagnolese. Questo per dire che anche lì abbiamo un problema di pericolo di estinzione di varietà autoctone a seguito degli incroci che si fanno o della semplice sostituzione con altre varietà esterne. La motivazione è quasi sempre legata al tema della produttività. Si incrociano questi animali con altri o se ne introducono di nuovi con l’obiettivo di aumentare le produzioni (di latte, di carne, etc.) e la prolificità e ridurre i tempi di accrescimento.
MG: Hai perfettamente ragione, ma c’è una differenza. Mentre con gli animali di grossa taglia, tipo la capra o la pecora e la mucca, riusciamo a guidare gli incroci e riusciamo a conservare anche la purezza, cosa che bisognerebbe fare, perché noi dovremmo pensare a migliorare la produzione andando a scegliere i riproduttori migliori, quindi selezionando la produzione o altri caratteri che si vogliono migliorare all’interno di quello che è l’allevamento “in purezza”, con le api questo è più difficile, perché con le api o facciamo tipo le riserve indiane dove chiudiamo il territorio a solo un tipo, una specie di api e quindi gli incroci avvengono andando a saturare quell’area con i maschi che a noi interessano per riprodurre determinate caratteristiche nell’ape che vogliamo avere, quindi che so un miglioramento della produzione, un miglioramento del comportamento igienico e altre cose.
Qui, dobbiamo aprire una parentesi perché non conta solo la produzione, conta anche come produco e come sopravvive la famiglia alle produzioni, perché se l’ape ha un buon comportamento igienico e mi produce un po’ meno, non è detto che sia negativa come famiglia, anzi. Perché una famiglia, avendo un buon comportamento igienico, riesce a prevenire problematiche grosse all’interno dell’alveare e, quindi, è una famiglia più longeva, cioè che sicuramente durerà di più nel tempo, perché determinate caratteristiche che ha di rimozione di larve che sono ammalate o di larve che non sono in perfette condizioni, tiene sana la famiglia
Perciò, dicevo l’alveare, perché questa è la differenza con le api. Noi non parliamo di allevamento di api come singolo individuo. Parliamo dell’alveare che è un organismo in cui abbiamo una sola regina e un certo numero di operaie, dette fuchi, che collaborano alla sopravvivenza di questa famiglia. La sopravvivenza come viene assicurata? Viene assicurata sì col raccolto e per questo è fondamentale che le operaie abbiano una buona indole produttiva, ma è importante anche l’aspetto sanitario. Cioè, come queste operaie si comportano rispetto all’apparire dei primi sintomi di una malattia, perché in quel caso un’ape che fa una buona pulizia è un’ape che riesce a prevenire le malattie.
Perciò, dicevo che oltre alla produzione, noi dobbiamo guardare anche a ciò che è la resistenza, la rusticità per certi versi, che ritroviamo nella capra cilentana, perché se noi prendiamo una Saanen c’è sempre un tema di adattamento alle condizioni ambientali, alla biodiversità, alle condizioni geomorfologiche e a tutti quei fattori che vanno a definire le condizioni del pascolo. Per quello che so, se prendo una capra Saanen, per esempio, e la metto sui nostri pascoli montani non ho un buon rendimento, perché il pascolo è magro, le condizioni in cui deve pascolare sono diverse da quelle del suo adattamento originario. Quindi, è un animale che si adatta poco al nostro territorio, al nostro tipo di pascolo. Cosa diversa è la nostra cilentana, perché tu la puoi lasciare anche all’aperto, ad un pascolo brado o semi brado, e quella riesce a sopravvivere, riesce ad andare avanti. Se lasciassi una Saanen allo stato brado, probabilmente me la ritroverei morta o per malattia o perché non riesce a mangiare come dovrebbe.
Per quanto riguarda le api questo è importantissimo. Avere delle api che sono adatte al territorio significa avere delle api che sono capaci di sentire le stagioni – e con i cambiamenti che abbiamo abbiamo bisogno di api che le sentano le stagioni. Se, ad esempio, ci riferiamo a quella che è stata la stagione appena trascorsa, noi abbiamo avuto una primavera non primavera, in effetti. E’ stata piovosa, fredda. Abbiamo avuto la neve in concomitanza con le prime fioriture di acacia e anche con le fioriture successive, come la sulla. Questo ha determinato carenza di pascolo, perché per le api una carenza di fioritura vuol dire carenza di pascolo. Ci siamo ritrovati con grossi e seri problemi con le famiglie che erano già partite, perché andavano in crisi e quindi cominciavano a comparire i primi segni di mancanza di cibo.
Anche se l’apicoltore gli dà il candito non è sufficiente. Il cibo importante è ciò che le api trovano in natura. Quella è la medicina per loro, perché trovano il nettare, ma trovano anche polline. Per quanto noi apicoltori corriamo ai ripari nei momenti in cui vediamo una crisi di importazione di nettare, riusciamo sì a contenere il danno, però possiamo innescare altre problematiche. L’alimentazione che noi forniamo non è certo studiata e bilanciata al punto giusto come quella che avviene in natura, dove è l’ape che va a scegliere che cosa prendere e portare a casa.
Noi creiamo degli squilibri e questo squilibrio alimentare si ripercuote su quella che è la capacità delle api di sopperire ad eventuali malattie. Quindi, cominciamo a vedere la comparsa della cosiddetta peste europea che è una malattia che compare con il periodo della brutta stagione nel momento del raccolto, perché abbiamo un polline bagnato e che, nella migliore delle ipotesi, non andrà bene per alimentare le api. Questo ci può dare poi dei problemi a livello di sopravvivenza delle larve. Sono dei problemi che poi le api riescono a superare, ma quest’anno vedevo delle famiglie delle nostre api autoctone che non andavano, non partivano, erano lente. Provavo a stimolarle per farle partire, però le api non partivano col passo che dovevano avere, con cui erano partite tutti gli altri anni. Quindi, la cosa mi faceva pensare, ma sarà che le regine non sono più valide? Avrò dei problemi a livello di regine? Ad un certo punto si cominciano ad avere dei dubbi.
Passato però questo periodo di gelate, le famiglie ai primi di maggio hanno cambiato faccia. Ho visto un’esplosione di covata. Ho trovato all’interno di queste famiglie covata e una laboriosità che era spinta, mentre invece nelle famiglie che erano partite prima e che io pensavo che fossero le migliori, ho visto un regresso, perché hanno dovuto combattere determinate patologie che sono emerse. Invece, queste patologie non c’erano in queste famiglie più attente, più accorte, che avevano capito bene quello che era l’andamento meteorologico e non si erano sbilanciate nella produzione di covata e quindi nell’aumento a misura spropositata delle api per poter poi fare raccolto.
Questo è un qualcosa che ci fa capire, se ci ragioniamo sopra, che è importante allevare, ma allevare ciò che la natura ha selezionato in questi luoghi, perché come per l’allevatore zootecnico abbiamo dei pascoli magri. Non abbiamo delle grosse fioriture, delle estensioni, come avviene in Calabria dove ci sono aranceti e clementine a perdita d’occhio e quindi le api hanno dei raccolti abbondanti nel momento in cui c’è questa fioritura. Poi, magari si spostano su altre fioriture successive. Noi queste cose non le abbiamo.
Abbiamo delle piccole fioriture e se ci saltiamo l’erica, che quest’anno ha subito la gelata, e l’acacia, che sono le prime che cominciano a dare quella spinta alle famiglie per farle sviluppare e contemporaneamente iniziare la fase produttiva, noi perdiamo gran parte del nostro raccolto.
AS: Poi, c’è il castagno.
MG: Abbiamo queste che dicevo, poi c’è la sulla nei terreni argillosi che è una delle piante autoctone per cui la ritroviamo.
AS: Quindi, la sulla la troviamo più nella parte del Cilento dove c’è il flysch, ma non nella parte dove c’è il calcare, che poi sarebbe il territorio del GAL Casacastra, ossia le valli del Lambro, Mingardo e Bussento.
MG: E non la troviamo sulle parti costiere. La troviamo più all’interno dove ci sono queste presenze argillose. Abbiamo tutte queste fioriture che però quest’anno sono state condizionate e hanno dato zero. Quest’anno le api hanno fatto una produzione di millefiori scuro, perché è partita a metà maggio. Di solito, i nostri mille fiori sono chiari, perché dipendono dalla macchia mediterranea, quindi dal biancospino e da altre presenze di fioriture, come l’albero di Giuda o le rose canine.
AS: La fioritura del corbezzolo quando è?
MG: Da ottobre. Il corbezzolo è una pianta che ci aiuta molto nel periodo autunnale, perché arriviamo ad agosto con le famiglie che sono allo stremo delle forze, perché non hanno scorte. Hanno consumato ciò che avevano immagazzinato e con le prime piogge cominciamo a vedere sviluppare di nuovo le famiglie con linula e vitalba. Poi, andiamo al raccolto, se la stagione si mantiene e non fa eccessivamente freddo, anche se c’è la pioggia. La pioggia importa poco perché se vedi la campanula del fiore di corbezzolo è rivolta verso il basso, quindi il nettare non prende l’acqua come nelle altre fioriture dove il fiore è rivolto verso l’alto.
AS: Giustamente, fiorendo a ottobre è stato selezionato per proteggere questa risorsa.
MG: Perché, come dicevamo prima, se non c’è impollinazione noi perdiamo ciò che è la varietà della nostra flora. Noi dobbiamo pensare anche a preservare ciò che abbiamo sul territorio e l’ape è un’attore fondamentale di questo processo. Ci sono arrivati un po’ tutti dopo anni. Negli ultimi due-tre anni anche a livello televisivo l’ape ha assunto un ruolo di un’importanza per quanto riguarda la conservazione e quindi viene pubblicizzata anche nei telegiornali, in cui si parla delle api, delle mancate produzioni, proprio perché l’ape è un bioindicatore ed è uno di quegli insetti che provvede a impollinare e quindi a rendere i semi fertili di circa il 70-80% delle piante che mangiamo. Circa il 70-80% di ciò che l’uomo consuma viene prodotto grazie agli insetti pronubi e tra essi ci sono le api.
L’uso in modo esagerato di diserbante e di altre sostanze ci ha portato a perdere gran parte della biodiversità. Molti insetti pronubi sono scomparsi. Sopravvivono le api perché hanno per l’apicoltore un interesse economico e quindi sono gli apicoltori i custodi della biodiversità. L’apicoltore ha un interesse, certo, ma l’apicoltore oltre ad avere un interesse, come per gli altri allevatori, ha una passione per quello che sta facendo. Ha un amore per l’insetto con cui lavora. E’ come il pastore che quando passa il gregge, riconosce le capre e le chiama per nome una per una. A me sembrano tutte uguali. Per me non c’è differenza, ma per lui no. Il suo lavoro, l’amore che lui prova verso questo lavoro, lo porta a percepire quelle piccole differenze che ci sono e a far sì che lui riesca a riconoscerle, cosa che io non riesco a fare e sfido chiunque altro a farlo.
AS: Vorrei che tu riflettessi su come si può costruire un’alleanza tra gli apicoltori e gli allevatori zootecnici, quelli degli animali un po’ più grandi, come tu dicevi. Perché questa alleanza, per quelle cose che dicevi tu, sembra fondamentale rispetto al fatto che anche quegli altri allevatori hanno bisogno delle api se vogliono avere dei pascoli di qualità. Hanno bisogno del lavoro delle api. Forse sarebbe fondamentale riuscire a costruire questa alleanza in maniera esplicita.
MG: E’ un lavoro da compiere. Se noi ritorniamo indietro nel tempo, se avessimo la possibilità di vedere ciò che avveniva in passato, e questa in parte ce l’abbiamo se diamo un po’ di attenzione alle storie che ci vengono raccontate dalle persone anziane, perché io ho appreso dalle persone di una certa età che in effetti in tutta la zona cilentana non c’era allevatore o produttore agricolo che non avesse avuto le sue brave arnie all’interno dell’azienda.
Questo era possibile un tempo perché non c’erano tutti quei parassiti che sono arrivati col tempo, tipo la varroa, e allora la famiglia era capace di produrre tutto ciò che gli serviva, dal miele, quindi il dolcificante o l’integratore come lo vogliamo chiamare oggi, al formaggio, alla carne, alle verdure. Perché la famiglia era come una piccola azienda dove c’era la zootecnia, compresi gli animali di bassa corte, la produzione agricola ed era tutto collegato.
AS: Con tutte le sinergie del caso, perché il letame veniva generato per fertilizzare i terreni e anche il pascolo brado o semi brado era funzionale all’attività agricola.
MG: Tra parentesi c’era un uso del territorio che era non un uso per lo sfruttamento intensivo, ma era un uso dove la rotazione agraria veniva fatta in modo molto spinto, anzi era il cardine su cui si lavorava, perché non potendo utilizzare tutti quei “trattamenti”, quei pesticidi che si usano oggi, si ovviava alla presenza di insetti dannosi che sarebbero arrivati per quelle colture, spostando la coltura. Quindi, si facevano le rotazioni in modo molto spinto e ovviamente nelle rotazioni anche il pascolo veniva rinnovato, perché il terreno veniva comunque coltivato e venivano tolte quelle piante infestanti. Cosa che oggi non facciamo più.
Un po’ tutti dovremmo riguardare un poco ciò che avveniva e cercare, dagli enti al più piccolo di noi, di rimettere un poco insieme questa sinergia e cercare di lavorare per far sì che il territorio non vada a morire. Perché buona parte dei dissesti, buona parte di quello che sta avvenendo in negativo, è anche causa della mancanza di uso del territorio da parte dell’uomo, perché il pastore o il contadino le acque le regimentavano, facevano il solco.
AS: Mettevano le pietre lungo l’argine del canale, in modo che l’acqua non esondasse e non finisse per essere assorbita dal terreno e che poi, anno dopo anno, come sta succedendo adesso, provoca frane e smottamenti che portano al dissesto idrogeologico.
MG: Tutto questo era un modo per far sì che un territorio come il nostro, molto soggetto al dissesto, perché il nostro è un territorio fragile, da questo punto di vista, è stato preservato, è stato più o meno portato ad un livello buono non fino ai giorni nostri, ma ai giorni dei nostri padri, sicuramente. Questo abbandono c’è stato dagli anni ‘70 in poi, progressivo, e sta portando a pascoli poveri, avanzata del bosco, ma il bosco inteso non come bosco d’alto fusto, inteso come macchia, quindi rovo e qualche piantina, ma quello che sta avanzando è soprattutto il rovo. Prima non esistevano tutte queste estensioni di rovo in giro per le nostre montagne, mentre ora alcune zone sono diventate quasi impraticabili.
Ci dovremmo riappropriare di un uso del territorio, con il nostro lavoro, non andando a modificare ciò su cui l’uomo mette mano, ma ad adattare, togliendo determinate varietà. Allora, in questo caso andremmo a togliere le infestanti per cercare di migliorare il pascolo e facendolo con le nuove tecniche, perché ci sono nuove tecniche. Non si ritiene più necessario smuovere il terreno e fare delle lavorazioni profonde, ma con queste nuove tecniche si possono fare delle semine che possono portare aiuto a tutti, dall’agricoltore al pastore.
AS: Si possono usare dei miscugli. Edmondo Soffritti, ad esempio, usa dei miscugli dove dentro ci sono 15 varietà diverse erbe.
MG: Il miscuglio deve essere fatto sia pensando a quello che è l’animale che lo dovrà mangiare, ma anche pensando al tipo di terreno su cui noi lo andiamo a seminare. Vedere le caratteristiche di questi terreni, come si prestano per quel determinato tipo di foraggiera. Andare a migliorare il pascolo significa migliorare la vita del pastore, migliorare sicuramente anche l’uso del territorio, perché quando miglioriamo i pascoli e cominciamo a regimentare di nuovo queste acque, non le facciamo ruscellare così da dilavare quelle che sono le sostanze organiche, allora cominceremo ad avere un uso e una zootecnia più forte.
Oggi come oggi, la zootecnia soffre, come l’apicoltura, della mancanza di pascolo, cioè non abbiamo quelle superfici giuste su cui lasciar pascolare, loro gli animali, noi le api, perché, si dica quel che si dica, le api pascolano e sono due specie che convivono benissimo, perché mentre l’animale sta brucando, l’ape sta lì affianco a lui e va a vedere se c’è nettare. Non si crea nessun motivo di attrito tra queste specie, vanno d’amore e d’accordo.
E’ più facile, invece, che si crei l’attrito tra noi e l’allevatore, perché l’allevatore comincia a pensare che le api chi sa che cosa vanno a combinare, senza pensare che in effetti alla base di un buon pascolo c’è anche una buona presenza di semi, e i semi per essere fecondi, per essere buoni, per riprodurre il pascolo devono essere stati impollinati. E chi è che li fa questi lavori?
AS: Ti volevo chiedere rispetto al discorso di avere dei periodi di fermo, tu dicevi delle rotazioni.
MG: Penso che la rotazione sia importante anche per il pastore, perché se noi sfruttiamo troppo un pascolo, anche se andiamo a rinnovare i pascoli e poi lasciamo le bestie su questi pascoli troppo a lungo, noi lo impoveriamo questo pascolo. Come hai detto tu prima, gli animali distruggeranno tutto ciò che si può riprodurre in positivo, lasciando solo ciò che a loro non piace, che sono poi le infestanti, il cardo, l’asfodelo, e il rovo. Quindi, avremo la presenza di un pascolo che è stato, per sovrasfruttamento, ridotto in quelle condizioni.
Pertanto, sarebbe interesse comune di tutti, che questi pascoli venissero ripresi, perché è importante per l’uso del territorio far sì che questi pascoli vengano rinnovati. E’ pure importante avere un attenzione nell’uso, quindi le rotazioni, la possibilità di non sovraccaricare quel pascolo mettendo troppi animali o facendoli restare troppo a lungo in modo da distruggere e non dare la possibilità al pascolo di riprendersi.
AS: Ti ringrazio molto perché credo che abbiamo aperto una finestra molto interessante e che penso consenta agli allevatori di meditare su quanto abbiamo detto, su quanto tu hai detto in particolare.
MG: Vorrei ricordare un’altra cosa. Come ho detto prima ogni allevatore, ogni agricoltore aveva le sue brave arnie con cui si produceva il suo miele. Prima, era possibile, oggi questo non è più possibile per un motivo molto semplice. Come per tutto c’è bisogno di formazione. Mentre prima non avevamo tante avversità, quindi non avevamo la varroa e altri parassiti, che sono alla base del cambiamento totale dell’apicoltura e, quindi, le api venivano tenute lì, abbandonate, si andava solo a “bottinare” nel momento in cui si andava a prendere il miele e lo si portava a casa. Oggi, non è più così.
Oggi, bisogna che l’apicoltore sia attento anche alla sopravvivenza delle api. Pertanto, deve avere una buona formazione, deve essere in grado di aiutare questo insetto a sopravvivere, anche con i dovuti trattamenti. Questa è una cosa che molto spesso anche da parte di chi attualmente fa apicoltura a livello hobbistico, viene tralasciata, pensando che se va a fare il trattamento, va ad inquinare le sue arnie. Non è così perché ci sono vari tipi di trattamenti. Ci sono dei trattamenti che sono naturali e che non vanno ad inquinare il miele. Poi, tra parentesi, tengo a precisare che quando si tratta, non è nel periodo di produzione, ma è prima di arrivare alla produzione o nei periodi di post produzione. I trattamenti vengono eseguiti in quei periodi, non certo nelle fasi in cui si va a produrre.
AS: Tu stai sottolineando il tema della formazione, per cui volevo chiederti, se uno volesse formarsi la tua associazione è un punto di riferimento e poi ci sono anche dei corsi regionali?
MG: Eravamo noi prima ad organizzare i corsi regionali e a farli. Poi, con la modifica introdotta con gli ultimi PSR, la formazione è stata affidata a degli enti terzi. Cioè, la Regione ha affidato a degli enti certificati per la formazione. Per cui la formazione regionale non viene curata dalla associazione, però noi continuiamo a fare la nostra formazione. Continuiamo ad avere dei corsi di aggiornamento. Facciamo con il 13.08, che prevede degli aiuti che vengono attraverso la Regione dall’Unione Europea, per delle giornate di aggiornamento e di approfondimento su determinati temi.
Quindi, la nostra è una formazione continua per chi fa apicoltura e penso che a breve partiremo di nuovo, se ce lo consente l’andamento dell’attuale pandemia, con dei corsi di primo livello sul nostro territorio, per far sì che chi vuole avvicinarsi all’apicoltura abbia una conoscenza minima di quelle che sono le problematiche del settore e di ciò che ci vuole per lavorare con le api. Poi, alla fine c’è chi resterà con quella conoscenza minima per gestirsi un’arnia o due e chi magari vorrà approfondire, perché è interessato ad un discorso diverso, quindi a creare una piccola attività economica, partendo dall’allevamento delle api. Noi seguiamo chi ha queste queste intenzioni con questi seminari e giornate dedicate ad approfondimenti di argomenti per coloro che vogliono far diventare l’apicoltura una “fonte di reddito”.
AS: Qui, poi dipende sempre anche dal fatto che scatti la passione.
MG: La passione serve per fare qualsiasi cosa, però con le api c’è quel piccolo problema che le api pungono e in molti si scatena una fobia per le punture delle api. Non si può lavorare con un insetto se si ha paura di essere da questo punto.
E’ importante anche toccare il problema delle allergie, perché mentre prima eravamo tutti un poco più esposti alla puntura, vivevamo più in campagna. Da bambino mi ricordo le corse nelle campagne, le punture che si beccavano, perché andavamo a prendere il frutto e magari c’era la vespa o l’ape. Questo ci portava ad avere una certa resistenza che piano piano cresceva insieme con la persona. Oggi, la presenza di queste allergie dovute anche ad un inquinamento maggiore, ci porta ad essere cauti. Il consiglio che si dà a chi vuole fare apicoltura è per prima cosa di fare una verifica se si è allergici o meno al veleno d’api. Perché la prima cosa da sapere è quella di poter lavorare tranquilli e per lavorare tranquilli non si deve aver paura di subire uno choc anafilattico. Questo è importantissimo. Poi, chiunque è interessato ad avvicinarsi all’apicoltura ci può contattare e noi lo indirizziamo sui nostri corsi.
AS: Ti ringrazio e sono contento che abbiamo fatto queste riflessioni perché, perlomeno per come la vedo io, il tema della dell’allevamento zootecnico è un tema che raccoglie tutta la complessa problematica legata alla biodiversità nel suo complesso. Quindi, è bene cercare di capire anche tutti questi altri aspetti.
L’obiettivi del progetto Nobili Cilentani è quello di fare sì che gli allevatori possano migliorare quello che fanno e poi soprattutto avere un reddito, perché di questi tempi senza un reddito non si va da nessuna parte. Però, per avere un reddito il tema è quello di riuscire a fare dei prodotti di grande qualità.
Qui, ci troviamo in un contesto dove credo che quasi il 100% degli allevatori pratica un pascolo semi brado o addirittura brado, per cui è chiaro che qui la biodiversità gioca un ruolo fondamentale. Sappiamo che l’ape è il cuore di questo discorso della biodiversità, è proprio l’elemento che sta alla base di tutto. Senza l’ape, come dicevi tu, non avremmo il 70-80% di quello che mangiamo. Non avremmo tutta la frutta e la verdura che abbiamo. Quindi, dobbiamo essere consapevoli di questa importanza, di questo ruolo.
Per questo, torno a ripetere, importante sarebbe riuscire a fare questa alleanza tra gli apicoltori professionali o comunque degli apicoltori ben formati e gli allevatori zootecnici che in Cilento sono ancora sia professionali sia per autoconsumo. Ci sono ancora migliaia di famiglie che allevano il maiale, qualche pecora e capra, una o due mucche, oltre alle galline e i conigli. Quindi c’è ancora un rapporto con gli animali che è molto diffuso. Questo è molto interessante e particolare, perché è un elemento di identità culturale del territorio, dell’essere cilentano.
Da questo punto di vista, sarebbe importante che anche l’ape tornasse ad occupare il ruolo che in passato aveva, però con basi, come dicevi tu, moderne, nel senso con un operatore professionale o adeguatamente formato, consapevole oltre che dei rischi per se stesso, rispetto al tema delle allergie, anche rispetto a tutta la complessità, che oggi purtroppo è aumentata, rispetto ai parassiti che molto spesso poi vengono da altri contesti del globo, non sono autoctoni e quindi sono un bel problema, perché non hanno degli antagonisti che possano contrastarli.
MG: Prima il Cilento era un tessuto dove tutti in famiglia allevavano minimo due maiali perché uno lo usavano per farsi il salume a livello familiare e l’altro lo usavano per poterlo vendere e racimolare qualche spicciolo per poter riprendere di nuovo questi allevamenti l’anno successivo. E’ la catena che è stata interrotta. Penso che sia importante per chi ci ascolta di fare di nuovo una grossa attenzione su ciò che compriamo. Cominciamo a chiedere da dove arriva quello che mangiamo. Oggi, c’è per legge la tracciabilità di ciò che arriva sulle nostre tavole, ma non riusciamo ancora ad abituarci a chiedere ciò che stiamo comprando da dove è arrivato.
Nel caso degli allevatori viene sempre meno utilizzato ciò che viene allevato qui, il capretto, l’agnello, per non dire il manzo. Si produce carne qui, ma vengono acquistati questi capi macellati in paesi che hanno allevatori intensivi. Ma, non abbiamo la stessa sostanza, non avremo mai gli stessi sapori di una volta. Cerchiamo di privilegiare ciò che viene prodotto qui, dal pomodoro alla bistecca.
Cerchiamo di capire quando andiamo al supermercato, al negozio, piuttosto che dal macellaio sotto casa, e chiediamo da dove viene questa carne e questo ortaggio. Da dove arriva? Vediamo la tracciabilità dei prodotti perché è un modo per far sì che il territorio ridiventi un mercato per chi produce in loco.
Oggi, è anche questa mancanza di mercato che ci porta all’impoverimento del settore zootecnico, come di quelli agricolo ed apistico. La non attenzione a ciò che mettiamo nel piatto e il miele è anche uno degli alimenti più contraffatti. Per questo dico di andare dal produttore a voi vicino, ma cercate di capire anche che cosa fa, perché è importante che noi che produciamo abbiamo un occhio di riguardo per chi questi prodotti li deve acquistare, perché io il miele che non do ai miei figli, non lo metto sul mercato.