Giuseppe Jepis Rivello, giovane 33enne professionista della comunicazione di Caselle in Pittari, è da anni uno degli animatori ed attivisti che ogni anno organizzano il Palio del Grano e che coltivano i grani antichi autoctoni. E’ stato per 4 anni il fiduciario della condotta Slow Food di Camerota-Golfo di Policastro. Jepis riflette su cosa significa essere un giovane allevatore in Cilento, su come fare comunicazione sul territorio, sugli operatori zootecnici e sui prodotti. Infine, sviluppa un ragionamento sulle specificità del Cilento legata al rapporto ancora molto presente tra uomo e ruralità, agricoltura e allevamento degli animali per autoconsumo.
Alessandro Scassellati (AS): Salve a tutti. Siamo con Giuseppe Jepis Rivello, un professionista della comunicazione di Caselle in Pittari, che ha una storia che ha delle radici culturali profonde nel territorio. Lo conosco da anni e so che Jepis è uno degli attivisti di Caselle in Pittari che in questi anni hanno messo in piedi il Palio del Grano, ormai diventata una manifestazione dedicata al lavoro agricolo che ha un valore nazionale e anche europeo. Poi, sappiamo che questo gruppo di giovani attivisti è impegnato nel recupero delle antiche varietà autoctone di grani. In questi anni, Jepis ha lavorato sulla documentazione delle storie degli agricoltori, degli allevatori e delle persone che vivono e lavorano sul territorio, documentando i modi in cui vivono il loro rapporto con il territorio. E’ stato anche per 4 anni il fiduciario della condotta Slow Food di Camerota-Golfo di Policastro.
Parlavamo prima di iniziare questa intervista del fatto che il Cilento è oggi uno dei pochi territori in Italia in cui è ancora possibile esercitare il diritto alla ruralità, ossia in cui è ancora possibile per chi ci vive avere un rapporto con la natura, con le coltivazioni e con gli animali, dalle galline ai maiali, dalle pecore e capre alle mucche che pascolano allo stato brado e semi brado. Questi animali sono ancora una presenza vicina e costante sul territorio. Si può ancora essere bambini e crescere insieme a questi e altri animali, non solo con cani e gatti, come avviene nelle città o altrove in Italia.
Con Jepis vorrei ragionare partendo dal tema dei giovani sia perché lui è un giovane 33enne, ma anche perché ha fatto tutto questo percorso, anche di gruppo a Caselle e non solo. Vorrei ragionare sul fatto che questo settore della zootecnia, oltre che essere importante economicamente, è ancora molto diffuso sul territorio del Cilento, nel senso che ci sono diverse famiglie che lo esercitano. Ha poi anche il suo valore intrinseco legato al fatto che è un’attività che consente il presidio del territorio rurale, perché ci sono ancora le transumanze stagionali che coinvolgono tutto il territorio. Si va dal basso all’alta collina e alla montagna dalla tarda primavera alla fine dell’estate e questo garantisce che qualcuno sul territorio ci sia sempre. E’ un’attività economica che produce reddito e soprattutto produce cibo di qualità, una cosa che nel mondo di oggi è un privilegio di pochi territori, considerando che c’è questo processo di industrializzazione della produzione del cibo controllato da questi imperi del cibo che Stefano Liberti, Marco Omizzolo ed altri hanno documentato e denunciato in questi anni.
Da questo punto di vista, il Cilento è molto democratico perché tutte le famiglie possono ancora produrre del cibo e gli allevatori lo fanno senza avere delle grandi dimensioni e utilizzando il pascolo brado e semi brado. Quindi, sono anche dal punto di vista ambientale sostenibili, hanno un impatto molto modesto rispetto alle forme degli allevamenti intensivi industriali.
Ora, però, succede che siamo in una fase di transizione. I contributi pubblici sono in via di esaurimento. Per anni sono stati una parte importante del reddito degli allevatori. Uno poteva avere 30 mucche e prendere 40 mila euro, poteva anche non mungerle queste mucche e molti non l’hanno fatto. Oggi, però questi contributi sono in via di esaurimento e quindi o uno compensa col produrre il reddito con la produzione e quindi con dei prodotti di qualità che riescono ad avere anche un mercato che gli riconosce questa qualità e quindi un valore aggiunto, oppure si rischia che nei prossimi anni, anche considerando lo scenario europeo caratterizzato dalla libera circolazione delle merci – quindi, di carne, latte, uova, formaggi, salumi e qualsiasi altro prodotto alimentare – per cui il cibo che consumiamo può arrivare dagli allevamenti intensivi di Romania, Francia, Danimarca o di altri paesi che hanno costi molto più bassi, qualità inferiore, però i prezzi dei prodotti sono molto più bassi. Basta andare nei supermercati e vedere.
Ecco, il rischio che nei prossimi anni si corre è la cancellazione dell’allevamento se non si riesce a far fare un salto di qualità a questo settore in Cilento, in particolare alle famiglie che vi si dedicano. Devono passare dall’essere semplicemente famiglie che allevano a famiglie che hanno un’azienda di allevamento. Questo lo dico anche rispetto ai giovani, perché i giovani ci sono, molte di queste famiglie di allevatori ancora riescono a socializzare la nuova generazione, a trasmettergli la passione e le competenze, però bisogna trovare il modo di garantire a questi giovani la possibilità di costruirsi un loro progetto, in maniera tale che poi a un certo punto non decidano o siano costretti semplicemente ad abbandonare il settore. Avere un progetto significa poter disporre di un minimo di risorse da investire. Per questo, a maggior ragione, si pone il tema dell’azienda rispetto al tema dell’autoconsumo che era l’obiettivo trainante tradizionale, storico, per cui si produceva per alimentare la famiglia e si vendeva una parte eccedente dei prodotti, qualche uovo, un po’ di carne, latte e formaggio.
Credo che oggi un giovane sia poco attratto dall’autoconsumo. Un giovane non vuole vivere come i pastori dell’800. Vuole essere un allevatore del XXI secolo. Questo è un primo tema che vorrei sottoporti per cercare di capire che succede. Ho incontrato alcuni giovani di Caselle che sono anche dei ventottenni e dei trentenni che fanno gli allevatori, che sono stati in grado di gestire positivamente il rapporto coi loro genitori, acquisire dei loro margini di autonomia. Vorrei che intanto partissimo da questa riflessione e poi abbiamo altri due temi che vorrei toccare con te.
Giuseppe Jepis Rivello (GJR): Grazie Alessandro e grazie soprattutto per questo lavoro di indagine, di ricerca, di luci che si accendono nella notte, in questo bosco, stando nel tema del pascolo, nel sottobosco e in posti dove ci stanno anche delle praterie, perché questo territorio è un po’ uno spazio aperto, nonostante che quello che abbiamo spesso a disposizione, morfologicamente parlando, non è così comodo, però abbiamo a disposizione tanti spazi da interpretare in molti casi. Parlando di giovani mi viene in mente che da giovane, da 33enne, però papà di due bambine che ha deciso di vivere con la propria famiglia qui a Caselle, ti dico che quando parlo coi giovani la prima cosa che che butto in mezzo è questo fatto che questo territorio è un’opportunità proprio perché ci sono molti spazi, sia spazi fisici sia spazi metafisici. Ci sono tante opportunità proprio perché c’è tanto da scrivere, non solo con le lettere, ma con le azioni, con le storie da vivere. Quindi, la tua provocazione della ricerca mi dà la possibilità di riflettere su questo fatto: i giovani che decidono di stare e di fare gli allevatori, di occuparsi di animali in questo territorio, perché lo fanno?
Tu mi stai dando uno spunto interessante, perché mentre parlavamo prima, quando ci siamo presi il caffè digitale, hai detto: “ma, perché un giovane dovrebbe avere lo slancio e l’entusiasmo di occuparsi di zootecnia nel Cilento?” Questa cosa si è messa nella mia testa e in realtà non è che ci avevo tanto riflettuto prima. Davo per scontato che chi lo fa, si mette a fare questa attività perché fa parte di famiglie e quindi segue la scia. Hanno le strutture più o meno già organizzate e cercano di rinnovarle. O perché intercettando dei segnali deboli, intuendo che il tema potrebbe essere interessante, provano ad andarci perché oggi la ruralità vive di un trend che è tutto da smontare e rimontare, ma vive di quel trend, ancora nelle conversazioni di molte persone. Poi, perché ci vanno?
Ci vanno perché non hanno voglia di andar via, cioè hanno voglia di trovare una propria dimensione nella propria comunità o nelle proprie comunità, perché in alcuni casi ci sono anche giovani che vivono a cavallo di più comunità nel nostro territorio. Questo è un tratto di una modernità fatta anche di una mobilità diversa, perché quando parliamo di questo territorio dovremmo tener presente che spesso ci riferiamo al territorio cilentano con una idea di mobilità vecchia, invece le generazioni giovani che oggi affrontano con la testa alta questo territorio, hanno ben presente che per vivere questo territorio, come dico io nel mio caso, bisogna fare, per me dico giga e chilometri, per altri soltanto chilometri, ma non chilometri di quelli che si fanno in altri posti dove ci sono strade comode e distese da percorrere per andare da un posto all’altro, chilometri perché non si trova tutto nelle piccole comunità e quindi ti devi spostare per forza.
Che cosa voglio dire con questo? Voglio dire che essere giovani qui vuol dire sapere che bisogna muoversi, in qualche modo. Cioè, bisogna muoversi all’interno di questo territorio. E questo territorio va inteso come un grande perimetro di movimento. Vivere a Caselle in Pittari non vuol dire vivere solo a Caselle in Pittari. Vivere a Caselle in Pittari vuol dire vivere almeno all’interno del basso Cilento. Cioè, per stare non rinchiuso a Caselle in Pittari devo quantomeno pensare di avere un’apertura nel territorio e con normalità vedere Caselle come un quartiere, in sostanza, che mi permette poi di andare in altri posti, almeno vedere da un lato Vallo della Lucania e dall’altro Sapri e poi il Vallo di Diano, come la normalità. Non come lo vedeva mio nonno che se gli dico che devo andare a Roccagloriosa per lui è un viaggio. Invece, no. Per me andare a Roccagloriosa vuol dire uscire davanti casa e quindi questa è un punto dell’essere giovani in questo territorio che è proprio un punto di mentalità, di approccio.
Poi, c’è un altro fatto, appartenenza più che ritorno alla terra o un ritorno alla zootecnia, e radicamento. Queste sono due parole che secondo me vanno tenute in considerazione. C’è chi da giovane si approccia a questo tipo di attività, che siano agricole, anche se ci sono tantissime criticità, la più importante, lo sai bene, è quella dei cinghiali, e per quanto riguarda invece, in generale, il ragionamento sui lavori rurali, che comprendono anche la zootecnia, per me la parola da tener presente è radicamento. Che cosa vuol dire? Ti spiego il mio senso di radicamento. Chi si mette a fare zootecnia per creare reddito in questo posto deve obbligatoriamente, per come la vedo io, pensare di radicarsi e non dire faccio il cacioricotta perché è un Presidio Slow Food soltanto o perché c’è qualcuno che lo sta valorizzando. O faccio il caciocavallo perché è qualcosa di bello e di bucolico. No, devo radicarmi attraverso quella produzione, ma le radici mi devono servire per slanciarmi.
Provo a creare un collegamento con quello che mi chiedevi tu. Per quale motivo dovrei volermi radicare? Perché senza radicamento non posso andare da nessuna parte. Allora, perché un giovane dovrebbe occuparsi di zootecnia all’interno di questo territorio? Dovrebbe occuparsene perché è un territorio che offre tanta biodiversità e tante possibilità di diversificazione in ambito zootecnico. Naturalmente, polverizza e parcellizza pure molto, perché non si possono scalare modelli di business che in altri posti sono invece molto più scalabili. Quindi, dobbiamo trovare i nostri modelli di business. Quando tu dicevi che i contributi europei stanno calando e molto probabilmente fra qualche anno chi alleva non avrà più la possibilità di avere tutti quei contributi che ci sono stati fino a questo momento. E allora, cosa facciamo, chiudiamo le stalle e si chiude tutto? Non credo che avvenga così. Per alcuni avverrà, per altri no.
Il fenomeno dal punto di vista della creazione del valore dovrà stimolarsi nella creazione di nuovi modelli di funzionamento che devono per forza vedere, da un lato, la distribuzione locale e, dall’altro, la distribuzione non locale. Cioè lo slancio nella relazione, e tengo sempre il tuo pallino nella testa, con l’esterno. Chi mi conosce sa che spesso ripeto che per essere giovani in questa terra devi vivere con un piede in questa terra, ma con l’altro devi andartene in giro per il mondo e la testa deve stare in rete, perché altrimenti se stai con tutti e due i piedi qui, il radicamento diventa un affossamento, cioè diventa uno stare in un posto e subirlo. Invece, non dobbiamo stare in questo posto e subirlo, dobbiamo interpretarlo, cioè dobbiamo viverlo, facendo quello che naturalmente si può fare, non dire: “vabbè, questo mi offre questa terra e questo devo fare”. No, cosa mi offre, ma come posso interpretarla nel 2030. Cioè, cosa vuol dire interpretare il cacioricotta nel 2030? Cosa vuol dire fare il il caciocavallo con le mucche che che vivono in questo pezzo di Appennino nel 2030? Non nel 2020, perché è già tardi, ma immaginarlo nel 2030, con i sistemi distributivi locali da ricreare in molti casi e con i sistemi distributivi che guardano anche altrove, perché non è detto che per alcuni prodotti, non per tutti, per quelli meno deteriorabili che si prestano anche ad un commercio diverso, si debba per forza dire o commercio locale o commercio non locale.
Dobbiamo creare dei modelli di business ibridi in cui, siccome gran parte delle nostre comunità non è nelle nostre comunità, cioè la Caselle più grande è fuori da Caselle, la relazione delle persone che producono qui con le persone con la comunità di Caselle che sta fuori – parlo per la mia comunità in questo caso, ma vale per tutte le comunità cilentane – la relazione da creare è anche una relazione alimentare.
AS: Mi raccontava un macellaio di Ascea che d’estate, quando c’è un ritorno di persone che vivono a Milano, a Torino o dovunque, che quando ripartono si portano il capretto o la carne di capra sottovuoto per consumarla a casa. La cosa paradossale sai quale è? E’ che oggi in Cilento la capra e il capretto non li sta mangiando più nessuno, mentre invece questi cilentani migranti ancora considerano questo un cibo identitario. Questo per avvalorare il tuo ragionamento. I migranti hanno ancora un rapporto emotivo, di ricordo, di identità personale e culturale con il cibo, con i prodotti alimentari con cui sono cresciuti da bambini.
GJR: Sì, e qui c’è pure da dire che abbiamo un sacco di lavoro da fare nella narrazione e proprio nella comunicazione e gestione interna delle informazioni come nostre comunità. Non riusciamo e dovremmo trovare il modo di farlo, a far passare una serie di messaggi, ma soprattutto a insinuare nelle conversazioni che decidono poi le scelte commerciali. Non riusciamo a far ammettere determinati prodotti all’interno di queste conversazioni, perché viviamo una serie di retaggi, anche di impoverimenti di contenuti, rispetto a questi prodotti. Ti faccio un esempio. La scelta sulle carni in molti casi non riesce ad essere sostenuta oltre il rituale. Il capretto a Natale e a Pasqua ancora si sostiene, ma perché non viene sostenuto oltre il rituale? Come facciamo a dire che certi alimenti possono andar bene anche oltre quel rituale?
AS: Questo per i caprini è fondamentale, perché il Cilento è vocato per i caprini. Ci sono ancora migliaia di capi in giro, però se poi alla fine nessuno se li fila, è un bel problema per gli allevatori. Si dice che i gusti sono cambiati, ho capito, però la ristorazione non li propone questi piatti molto spesso.
GJR: E qui stavo arrivando a quello che ti volevo dire. Chi è che dovrebbe fare questo lavoro insieme agli allevatori? Ci sono due teste che si aprono a questo punto. Una è quella delle famiglie e l’altra è quella di chi somministra il cibo tutto l’anno e soprattutto in alcuni periodi dell’anno, quindi gli operatori gastronomici, che in questo caso sono operatori culturali, perché non dobbiamo dimenticare che gli operatori gastronomici sono operatori culturali. Dobbiamo trattarli in quanto tali, stimolarli e formarli in questo modo perché chi trasforma il cibo ha delle responsabilità molto importanti. In questo senso, fortunatamente nel nostro territorio sono sempre di più quelli che accendono la testa e attivano delle lampadine in questo senso. Però, abbiamo tanto lavoro da fare. Chi acquista in ambito business to business, cioè chi acquista come ristoratore ha oneri e onori, perché deve riuscire a fare tutto questo lavoro, anche creando in molti casi un’offerta, mettendola in piedi magari collaborando con i produttori, anche perché sappiamo quanto vale per il mercato la faccia del produttore. Se sono un ristoratore, se sono un operatore culturale gastronomico, mi rendo conto con consapevolezza che per me è una leva di marketing avere le facce e le storie vere di chi produce il cibo, allora può essere interessante utilizzare quella leva nei processi di vendita e di racconto.
AS: Poi, da questo punto di vista sarebbe importante che si riuscisse a costruire un rapporto diretto, non solo di fornitura, tra i ristoratori e gli allevatori o gli operatori agricoli in generale, rispetto al fatto che, per esempio, sul vino si fa da tempo, ci sono gli assaggi dei sommelier, ci sono una serie di eventi pubblici dove i produttori si incontrano anche con ristoratori e fanno un lavoro insieme, collettivo, in cui c’è la critica, in cui c’è l’analisi, in cui c’è un racconto, ci sono tutta una serie di momenti di relazione che in Cilento purtroppo, in questo momento, non ci sono. Invece, sarebbe importante che si costruissero questi momenti di scambio, che sono poi dei momenti fondamentali rispetto ad un perfezionamento dei prodotti e a una conoscenza dei prodotti e dei produttori da parte dei ristoratori. Si tratta di creare una comunità in cui si crea una condizione di conoscenza, vicinanza, credibilità e fiducia propedeutica alla creazione di relazioni di mercato. Se hai fiducia poi ti compri i prodotti.
GJR: Quella condizione crea delle relazioni di mercato. In alcuni casi c’è bisogno innanzitutto risolvere dei problemi burocratici. Quando parlo con dei produttori e allevatori locali, una delle cose che mi viene detta: “è paradossale che in molti casi non riusciamo a vendere i nostri prodotti né alle famiglie né ai ristoratori locali”. Mi chiedo come si fa ad unire questi due punti? Come si fa a creare quella condizione che dicevi tu adesso? Molto probabilmente dobbiamo inventarci dei sistemi in cui si mettono in piedi questi sistemi di conversazione e si fanno stare vicino le persone. Cosi come si e fatto per tanti altri prodotti, lo si deve fare anche per la zootecnia. Però, tutto questo detto, dobbiamo metterci in testa che in molti casi gli allevatori in primis sottovalutano il valore che ha il loro racconto, la loro comunicazione, il loro metterci la faccia. Per questo il lavoro che stai facendo ha un altro metariferimento, quello di far mettere la faccia ai produttori. E’ un nuovo inizio se ci mettiamo la faccia.
AS: Ti posso dire che ho avuto delle reazioni da alcuni di loro incredibili, perché finalmente c’è qualcuno che gli offre l’opportunità di raccontarsi. Alcuni poi non hanno un computer e le interviste le facciamo con il cellulare, quindi anche in condizioni tecnologiche non ottimali, però c’è la fierezza e l’orgoglio di essersi finalmente resi visibili. Questa è una cosa che a me dà una soddisfazione enorme, rispetto lavoro che sto facendo, perché mi rendo conto che ci sarebbe bisogno di qualcuno che facesse questo tipo di lavoro con loro con continuità. In questo caso sono io, per carità, e lo faccio con piacere ai fini della ricerca prevista dal progetto. Però, la sensazione è che molti di loro soffrano di una profonda solitudine sul territorio, di un mancato riconoscimento del loro ruolo e che questo spesso poi li porta ad un isolamento rispetto al fatto che hanno pochi interlocutori, persone con cui cominciare dal bar, soprattutto quelli che vogliono fare le cose come si deve, se studiano, se cercano di fare delle innovazioni. Non hanno amici che sono necessariamente interessati a capire che cosa stanno facendo e rischiano di essere visti dagli altri come dei marziani che vengono da un altro pianeta, eppure sono dei cilentani doc come tutti gli altri. Però, si sono posti nella logica di provare a rinterpretare la tradizione, di fare un lavoro innovativo, di trovare delle strade diverse, ma questo li rende paradossalmente degli emarginati dal punto di vista socio-culturale.
GJR: Però, su questa cosa qui ti voglio contro-provocare. Adesso abbiamo degli elementi nuovi in questo senso. Prima essere soli voleva dire essere soli, adesso essere soli non vuol dire, secondo me, essere completamente soli, perché la rete, la nuova ruota che stiamo imparando ad utilizzare, che è il web, ci ha dato la possibilità di essere all’interno di questo territorio e di poterci relazionare e portare qui il mondo. Perché se porti il mondo a casa tua, prima o poi casa tua si rende conto che tu non sei uno da tenere ai margini. Questa è una forza che dall’esterno deve spingere verso l’interno, perché questo oggi tra l’altro lo si può fare a bassa soglia. Prima ci volevano strutture, dovevi essere super alfabetizzato, dovevi avere una rete di relazioni strapotente, dovevi avere chi gestiva le public relations. Oggi, le public relations le gestiamo in modo più rapido e diretto. Per questo siamo in un punto di non ritorno da questo punto di vista. Questo è importante.
Un allevatore di oggi non è come un allevatore di trent’anni fa, perché se si riesce a connettere, a relazionarsi con altri 30 allevatori, anche se stanno in altri posti d’Italia, e se riesce ad andare oltre quei 30 allevatori e a trovare altre persone che stanno in altri posti e a portarle nel suo territorio, rompe lo schema che ci ha portato a questo tipo di situazione stagnante. Dinamizza socialmente, innanzitutto, perché porta interesse all’interno del suo territorio, ma non ti parlo di turismo, ti parlo di relazioni umane. Poi, che si generi anche flusso turistico diretto e indiretto, perfetto, ma ti parlo innanzitutto di generare relazioni. Una cosa che mi sento di dire a coloro che fanno questo lavoro, ma anche a chi opera in senso ampio in ambito rurale, è soprattutto non vedersi confinato in questa terra, perché oggi non ce lo possiamo permettere e abbiamo gli strumenti per non farlo.
AS: Ti vorrei sottoporre ancora un’altra questione che in parte è una provocazione. Dico che tu sei un etnografo del territorio in varie forme, soprattutto nelle forme video e per questo ti parlo di quello che ho scoperto, facendo questa ricerca, e che mi ha destabilizzato per qualche giorno. Mi sono reso conto che dal punto di visto antropologico il Cilento è veramente diverso rispetto al resto d’Italia per il semplice fatto che le persone e le famiglie hanno ancora un rapporto molto forte con la ruralità, con l’agricoltura e con gli animali. La cosa incredibile è che l’ho scoperto quando, intervistando Alessandro Pellegrino, lui mi ha fatto capire che solo a Caselle in Pittari ci sono centinaia di persone/famiglie che allevano il maiale. Lui fa nascere 400 maiali e circa 350 li vende quando raggiungono il peso di 30 kg oppure di più. Li vende a dei privati, a delle famiglie che poi li allevano, portandoli a maturazione, per poi farli macellare e lavorarli in casa, facendo bistecche e insaccati, coinvolgendo l’intero gruppo familiare. Cioè, le famiglie hanno ancora queste competenze. Io, se mi trovassi davanti la carcassa di un maiale, non saprei neanche da dove cominciare, però so che del maiale non si butta via niente, perché questo l’ho imparato da piccolo. Però, non saprei che cosa farci. Ecco, quindi sono veramente stupefatto, perché ho capito che questo rapporto con i maiali c’è anche con le galline, le pecore, le capre. C’è chi ne ha 2-3-5. Chi ha una o due mucche. Le famiglie hanno evidentemente ancora uno stretto rapporto con la terra, con le produzioni agricole e con questi animali domestici.
Questa cosa qui è importante non solo dal punto di vista del rapporto con gli animali e di quello con i consumi alimentari, ma anche per l’identità culturale del territorio. In Cilento non esiste solo la zootecnia professionale, ma esiste anche una zootecnia che potremmo definire, in termini forse non belli, hobbistica oppure, meglio, di popolo, che ha le sue radici nella cultura contadina dell’autoconsumo. E’ un mondo culturale molto complesso che si intreccia con la tradizione familiare e che contribuisce a definire l’identità culturale cilentana nel rapporto con le produzioni, con il cibo, con la sua qualità. Vorrei che tu riflettessi su questa questione.
GJR: Guarda, grazie anche perché sono coinvolto in prima persona in molti casi, e ti ringrazio perché mi permette di ragionare e di riflettere con te sul fatto che abbiamo perso tanto per strada, sicuramente era diverso qualche decennio fa, però non abbiamo perso tutto. Era diverso, nel senso che oggi in tanti non allevano completamente i maiali o gli altri animali, ma li prendono, come hai detto tu, quasi alla fine o alla fine del ciclo di vita per fare soltanto la lavorazione. Quel soltanto la lavorazione nel guardarla dal lato di cosa abbiamo perso, purtroppo è un punto di debolezza. Guardo il bicchiere mezzo vuoto, però se mi metto nella tua prospettiva. Cioè, in quel caso guardo che ci sono tante comunità, tante famiglie che ancora conservano la pratica, le maestranze, le competenze per trasformare la carne. Poi, bisognerebbe fare tutto un ragionamento su che tipo di carne, da dove viene, come viene allevata, ma non è questo il mio compito. Quello che è importante è che si sono conservate quelle competenze e le si continuano ad esercitare. Tra l’altro, ti dico non soltanto nelle generazioni più avanzate.
Dal fronte ti riporto notizie rispetto al fatto che ci sono anche molti giovani che mettono le mani in pasta, che trasformano, che producono, che fanno e che gestiscono queste lavorazioni per autoproduzione, naturalmente. Con orgoglio e su questo andrebbero fatti dei lavori di maggiore attenzione e maggiore consapevolezza relativi alle materie prime. Però, arrivati in questo periodo, uno dei primi pensieri delle famiglie della mia comunità, ma di tante altre comunità del nostro territorio, dopo aver finito la raccolta degli olivi oppure mentre si sta per andare verso la conclusione della raccolta delle olive, il primo pensiero è quello della lavorazione dei maiali. Non è un fatto diciamo che si fa in due o tre famiglie, si fa in tante famiglie. Questa cosa qui, guardando il bicchiere mezzo pieno e non mezzo vuoto come lo vedrei analizzando da solo la cosa o con qualche mio compaesano, ti dico sì è un valore.
AS: E’ un patrimonio culturale importante questo, delle persone e delle famiglie che vivono sul territorio, perché è un modo di interagire con il contesto che è molto più ricco rispetto a chi vive in altri territori, dove il rapporto per dire con la ruralità, con il verde per intenderci, è solo quello di andarci a passeggiare o in bicicletta attraverso, oppure di andare a fare la scampagnata per la Pasquetta, che è la tipica tradizione romana della gita fuori porta. Lì finisce.
Invece, in Cilento le famiglie sono ancora coinvolte in attività di allevamento, di trasformazione, di coltivazione che sono diffusissime, nel senso che più o meno tutti hanno comunque qualcosa da fare, per lo meno un piccolo orto. Questo significa che rispetto alla modernità che vogliamo, per lo meno di quella di cui sono un fautore, che è quella in cui si ristabilisce un equilibrio tra uomo e natura, tra produzione di cibo e contesto ambientale, il Cilento non è arcaico, al contrario sta avanti, è ipermoderno. Capisci che cosa voglio dire? Dopo di che bisogna lavorare, come dici tu, sulla qualità delle materie prime, sui metodi di allevamento e di lavorazione e tanti altri aspetti, però già c’è una base da cui puoi ripartire. Questo è il punto.
GJR: C’è una base di esigenza innanzitutto, perché c’è l’esigenza di farlo per i motivi che dicevamo prima, cioè di identità, di richiamo di alimentazione, di quelle radici di cui parlavamo prima. Poi, c’è pure il fatto che facendo tutto questo, pensando di essere degli esseri umani che vivono su questo pianeta nel 2030 e che ci vivono con un rapporto con il cibo, con le materie prime, con quello che ci mangiamo, che non è solo figlio di quell’industria che non fa bene al pianeta. Naturalmente, c’è una mescolanza. E’ il tempo che viviamo, la contemporaneità che viviamo che vede sullo stesso piano l’industria che fa male al pianeta e che arriva sulla stessa tavola dove c’è il salame prodotto con quelle competenze di cui parlavamo prima. Quella è la contemporaneità, la bottiglia di Coca-Cola sulla stessa tavola dove ci sta la prosciuttella oppure la soppressata fatta con quelle competenze di cui dicevamo prima. Dobbiamo trovare il modo, non dico di togliere per forza quella bottiglia di Coca-Cola, perché non voglio essere così integralista, ma di accendere delle lampadine di informazione e consapevolezza sul fatto che c’è bisogno di praticare, perché praticando, praticando, praticando si fanno anche tanti passaggi teorici in questo senso.
AS: Bene, ti ringrazio molto per questa conversazione stimolante, almeno per me. Questi sono tutti elementi su cui sto riflettendo e ragionando in questo percorso di ricerca. E’ un percorso di apprendimento che sto cercando di fare insieme agli allevatori e agli operatori della filiera zootecnica cilentana.