Programmazione dello sviluppo del territorio e accompagnamento della zootecnia nella transizione

Pietro Forte, presidente del GAL Casacastra, allevatore di capre a Massicelle di Montano Antilia e medico, ragiona sulla sua esperienza e sulle tematiche relative al rapporto tra programmazione delle attività del GAL e l’accompagnamento del passaggio da famiglie allevatrici ad aziende zootecniche nel territorio del GAL Casacastra.

Alessandro Scassellati (AS): Salve a tutti. Siamo con Pietro Forte, un medico, ma anche il proprietario di un’azienda di allevamento di capre che si chiama Fattoria del Gelso Bianco, e presidente del GAL Casacastra, ossia dell’entità che ha emesso il bando a cui il nostro paternariato ha partecipato presentando il progetto Nobili Cilentani e proprio per questo progetto stiamo facendo questa sugli operatori della zootecnia nel territorio.

Vorrei che Pietro Forte ci parlasse di questa sua esperienza di allevatore. Come è nata? Che tipo di animali ha e come vengono allevati? Che risultati ha avuto in questi anni? Poi, facciamo un discorso più ampio sulle tematiche della zootecnia nel territorio del GAL.

Pietro Forte (PF): Abbiamo avviato questa esperienza nel comune di Montana Antilia, nella frazione di Massicelle, all’inizio degli anni 2000. Quindi, ormai abbiamo fatto una bella esperienza di circa 15-20 anni sull’allevamento della capra. Siamo partiti per scherzo, nel senso pensavamo di recuperare dei terreni che venivano invasi dai rovi, perché lei sa bene che le capre sono quegli animali che riescono a tenere puliti anche i fossi e i canali. Era un territorio che si andava spopolando, sempre meno manutenuto, esposto agli incendi e all’abbandono. Abbiamo cercato di recuperarlo, immettendo questo allevamento di capre che ha avuto alterne vicende, ma sono sono ormai 15-20 anni. Eravamo partiti solo con l’allevamento utilizzando capre di razza Saanen e camosciata, perché sono quelle che sul mercato riescono a dare una produzione di latte di buona qualità e anche di buona quantità. Non ci dimentichiamo che poi alla fine ci sono anche dei conti economici da fare, non solo un racconto di passione verso la capra cilentana che produce 2-300 cc di latte, ossia una quantità molto scarsa. Quindi, siamo partiti producendo solo il latte, poi ci siamo resi conto che c’erano delle difficoltà di tenuta dell’allevamento, per cui negli anni abbiamo attrezzato un caseificio aziendale.

Abbiamo capito che il latte bisognava lavorarlo con tecniche innovative, nel senso che rispetto a tanti anni fa in cui si faceva il cacioricotta per un sistema di convenienze legate al recupero del latte, perché una volta raccolto si teneva per ore nei bidoni e quindi c’era una flora batterica che lo inquinava, per cui cresceva e si fermentava e poi bisognava passarlo a 90 gradi per sterilizzarlo, perdendo oltre ai batteri anche le proteine. Abbiamo studiato come evitare questo effetto. Questo si fa attraverso il mantenimento della catena del freddo. Il latte appena munto deve andare a 4 gradi, poi venire lavorato e portato a determinate temperature – da 40 a 60 gradi – in base al tipo di formaggi, mantenendo tutte le qualità organolettiche e nutritive. E’ stata una bella sfida, però ci siamo riusciti e abbiamo messo sul mercato un prodotto che dal punto di vista nutraceutico e della qualità è sicuramente di alto livello. Questo ci è stato riconosciuto in vari in posti dove abbiamo portato i nostri prodotti.

AS: Quante sono le capre che avete?

PF: Siamo partiti da un numero discreto, eravamo arrivati ad avere 3-400 animali, poi abbiamo ridotto il numero per problemi di spazio e di maestranza, perché lei sa bene che realizzare le cose forse non è manco difficile, ma è esercitarle che poi diventa problematico, questo anche per problemi legati alla manodopera, perché certi lavori sono stati un poco abbandonati dagli italiani. Non li vogliono fare più e quindi bisogna ricorrere alla manodopera straniera che spesso è una manodopera che non è abituata neanche al lavoro, perché vengono da latitudini dove fa molto caldo e non sono abituati ad avere radicamento. Se uno parte e lascia famiglia – figli, padre, moglie – per andare in un’altra parte del mondo a lavorare, così ugualmente ti lascia per andare da un’altra parte del mondo, perché non si creano radici. Quindi, è difficile fidelizzare le maestranze, anche perché questa è un’attività impegnativa, cioè qua non esiste Pasqua, Natale o Capodanno. Le capre devono mangiare ed essere munte tutto l’anno, tutti i giorni dell’anno, per cui è un impegno notevole.

Però, questo tipo di iniziativa dopo tanti anni ha contribuito a trasformare una parte del territorio. Siamo riusciti a recuperare i prati dove c’erano i rovi. Siamo riusciti a cambiare il paesaggio in senso positivo. Siamo riusciti a recuperare dei bei boschi. Siamo riusciti a recuperare anche un’identità che andava persa.

Se sono riuscito a studiare, ad avere l’emancipazione e una laurea, credo che non devo dimenticare che l’ho fatto grazie ai miei genitori che utilizzavano questo tipo di attività per sostenerci. Noi non veniamo da da chissà quale ricchezza. E’ chiaro che i nostri figli partono già da livelli diversi, però noi no. Uno dei miei crucci era proprio quello di recuperare quella stalla in campagna fatta tutta in pietra dove mio padre aveva le mucche. Da quello è nata la sua attività ed è riuscito a farci studiare. Quindi, il nostro è stato anche un senso di ripagare generazioni che hanno sudato per fare crescere intere generazioni. Non dimentichiamo che le nostre terre vengono da decenni di prostrazione, di fame, di guerre e di carestie.

Quindi, il nostro è stato anche un modo per rendere omaggio a queste generazioni, perché noi non avevamo bisogno, facendo un’altra attività. Però, volevamo rendere omaggio a queste persone che col sacrificio del loro duro lavoro e il sudore della fronte sono riusciti a migliorarci, a darci un futuro, facendoci sudare di meno nei campi, però facendoci vivere un po’ meglio. Questo è stato un poco quello che ci ha mosso, poi è subentrata la passione. Se uno viene dalla terra, il richiamo della terra c’è sempre nel sangue di ognuno di noi. C’è quella forza che ti tira verso le origini, verso il vissuto, perché quando da bambino vivi certe esperienze ed emozioni che magari l’inconscio cancella, ma rimangono nella mente e nel cuore.

Poi, ci siamo appassionati, abbiamo cominciato a studiare, perché è fondamentale la formazione e l’innovazione. Prendere una tradizione antica, fatta con tanti difetti, e studiare come rimuovere questi difetti per far uscire sul mercato un prodotto innovativo. Questa credo che sia stata un’altra sfida che siamo riusciti a vincere. Però, il livello di confronto è fatto di approfondimento, di studio, di professionalità che devono essere al servizio della zootecnia e quindi del territorio. Questo è assolutamente fondamentale. E’ chiaro che se ci troviamo ad avere dei casi studio, nel senso più ampio della parola, di 1-2-5-10 allevamenti, si tratta di un’esperienza limitata. Se avessimo sul territorio 50-100 o più attività di questo tipo, allora anche dal punto di vista della crescita professionale dei vari agronomi, veterinari e tecnici che progettano, sarebbe più importante e aumenterebbero anche gli investimenti. E’ chiaro che quando ci sono poche iniziative, l’investimento anche da parte dei giovani è minore.

AS: Le vorrei chiedere qualcosa proprio su questo, perché siamo in una fase di transizione a tanti livelli. Il CoVid-19 è stato un acceleratore di molte di queste transizioni e nei prossimi anni ci saranno anche queste risorse (quelle del PNRR) che dovrebbero in qualche misura sostenere queste transizioni. Una di queste riguarda anche il mondo della zootecnia rispetto al fatto che negli ultimi 20 anni sono state dedicate tante risorse attraverso i PSR che hanno veicolato fondi europei. Grazie a queste risorse il settore dell’allevamento ha conosciuto una certa ripresa. Però, la sensazione è che nel futuro questi fondi si ridurranno e quindi il tema diventa quello di essere in grado di passare da una dimensione di allevamento familiare ad una gestione da parte di famiglie che si pongono il problema di diventare aziende. Lei diceva che ci vogliono studio, professionalità e competenze. E soprattutto ci vogliono delle produzioni, perché bisogna integrare il reddito che eventualmente continuerà a venire dalle sovvenzioni pubbliche, con il mercato. Questo significa integrare la filiera il più possibile. Le famiglie/aziende che sono in grado di farlo, dovrebbero arrivare a mettere il caseificio e il punto vendita, in modo da fare la vendita diretta. Inoltre, avere una gestione un po’ più da azienda, in modo da fare bene i conti, perché come diceva lei, sono parecchi i costi, se si deve comprare i cereali e il fieno. In Cilento, a parte il bacino dell’Alento dove c’è l’acqua e una zona di pianura dove si possono coltivare dei foraggi, nel resto del territorio questo è piuttosto problematico, cioè non ci sono gli spazi e le condizioni – manca l’acqua – per fare questo. Se si devono comprare dei mangimi, sappiamo che i prezzi di queste materie prime continuano a crescere. In sostanza, le aziende potrebbero avere delle difficoltà, considerando che alla fine dell’anno bisogna fare un bilancio ed avere un reddito positivo, altrimenti si chiude.

Facendo queste interviste è emerso che il GAL è piuttosto attivo, ci sono diversi allevatori che stanno cercando di fare il caseificio, di rimettere a posto la stalla, di mettere a posto dei laboratori, che hanno avuto dei soldi dal GAL per fare queste operazioni. Vorrei che lei facesse una riflessione su queste tematiche e su quali linee dobbiamo seguire.

PF: Credo molto nella polifunzionalità e nella chiusura della filiera. Noi non possiamo immaginare di andare ad aggredire mercati del nord o dell’est o dell’Europa. Noi dobbiamo cercare di portare sulle tavole dei nostri agriturismi e ristoranti i nostri prodotti, perché con le nostre piccole produzioni non abbiamo difficoltà a mettere sul mercato dei prodotti nei mesi di giugno, luglio e agosto, in cui abbiamo qualche milione di visitatori sulla costa. Senza fare chissà quale volo pindarico, queste piccole produzioni dobbiamo venderle qua, sul territorio, perché il valore aggiunto è il territorio. Mi deve credere, c’è una forte richiesta di territorio Cilento, una forte richiesta di turismo esperienziale. Non dobbiamo, a questo proposito, disdegnare la regione Campania, perché abbiamo Napoli e dintorni. Tutta la regione sono 5-6 milioni di abitanti, a Napoli ci sono 2-3 milioni di abitanti. E’ il presidio più abitato della nostra regione ed è fatto anche di gente che si muove, che vuole vivere esperienze anche di tipo agricolo, contadino. Quindi, senza fare investimenti di tipo iperbolico, ma facendo qualche stanza per la ricettività, la piccola produzione, la trasformazione, l’azienda che si diversifica, che mette a disposizione la bicicletta o il sentiero o quant’altro, credo che possa creare anche l’esempio, perché l’esempio è quello che più stimola gli altri.

Noi, come GAL, abbiamo sì finanziato una quindicina di interventi soprattutto per i PIC, per le nuove attività e iniziative legate ai giovani, ma ho visto che molte erano agganciate a iniziative dei nonni e dei padri, quindi già avevano un certo know-how, una certa conoscenza. Quindi, non sono fondi che possono essere dissolti nel vento, cioè partiamo da una base esistente, da una certa esperienza e credo che questo sia fondamentale.

Quando abbiamo deciso cinque anni fa la strategia – e ricordo c’era l’assessore all’agricoltura e c’erano tutti i sindaci, perché noi siamo un consorzio pubblico-privato con 25 comune più 25-30 operatori privati – ci siamo immaginati il futuro. Abbiamo usato la parola programmazione che significa guardare non al naso, ma a un anno, due anni, tre anni a che cosa può succedere. Probabilmente, con un mondo in cui pensiamo di poter risolvere tutto con un click, può sembrare un modo desueto e antico. Però, devo dire che abbiamo fatto questa riunione e la ricordo con piacere alla sala della Comunità Montana nella sede di Torre Orsaia e c’erano quasi tutti i sindaci e gli associati, ci siamo guardati in faccia e abbiamo detto cosa avremmo fatto di questi di questa dotazione finanziaria. Avevamo superato la prima fase delle selezioni e ci siamo interrogati su che cosa volevamo fare e all’unanimità abbiamo deciso di investire quasi tutto sui privati. Quindi, nuovi interventi in agricoltura soprattutto nei progetti di innovazione e di filiera e nei progetti di polifunzionalità delle aziende.

Tutti i fondi che avevamo a disposizione li abbiamo messi a disposizione del privato. Spesso diamo la colpa al pubblico o al privato, ma credo che una società sia come un corpo umano: deve crescere in modo armonico, non può crescere più un braccio rispetto ad un altro. Spesso puntiamo il dito contro il sindaco, contro il comune, ma io devo dire, io imprenditore che faccio per questo territorio? Oppure, tutto il contrario, io amministratore che faccio per questo territorio? Dalla sinergia pubblico-privato possono uscire delle esperienze che sono innovative, ma che sono quelle che dovrebbe fare ogni territorio.

Abbiamo deciso di investire tutto sul privato e i privati hanno risposto in modo positivo. Ci sono progetti di innovazione come questo della Comunità Montana, per il quale ringrazio dell’intuizione che ha avuto il presidente Speranza. Ci sono tanti altri progetti nell’agriturismo, un altro filone che è fondamentale per il nostro territorio. Abbiamo immaginato di creare una rete di produzione, agriturismo e trasformazione perché abbiamo visto che questa era la via verso cui si avviava il futuro.

Oggi, a distanza di 4-5 anni, sono estremamente contento perché siamo riusciti, nonostante le tante difficoltà amministrative e burocratiche, perché per arrivare a presentare un progetto, avere un’approvazione, ci vogliono quintali e quintali di carte, tutte cose complicatissime che allontanano. Allungano i tempi. Se immagino di realizzare una cosa e non riesco a farlo in uno o due anni, come succede in Italia, dove spesso ci vogliono cinque anni, quella cosa probabilmente ha perso proprio il seme iniziale. Purtroppo, viviamo in una società lenta. Bisogna velocizzare, essere al passo con i tempi. Credo che noi con questo tipo di attività, abbiamo tracciato una via.

I fondi del del GAL li abbiamo impegnati tempestivamente, perché noi siamo tra i GAL della regione Campania che hanno speso di più e hanno speso meglio. Questo perché siamo riusciti a farlo? Perché c’è stato un insieme, ci sono stati i comuni che hanno fatto la loro parte, i privati che hanno fatto la loro parte e noi che abbiamo fatto la nostra parte. Oggi, ci troviamo ad essere tra i GAL più virtuosi come spesa perché c’è stato un connubio positivo. La crescita organica è assolutamente fondamentale.

Abbiamo fatto una bella esperienza e ringrazio tutti questi privati che si sono messi in gioco, le amministrazioni che si sono messe gioco, perché l’altra questione che abbiamo cercato di integrare nel progetto è anche quella che arrivano i turisti che vogliono fare un’esperienza sul nostro territorio, i comuni che cosa possono offrire? Abbiamo immaginato di realizzare la rete della cultura, la rete dei musei e in effetti abbiamo finanziato per circa un milione e dispari tutte le amministrazioni che hanno presentato progetti per la riattivazione di strutture museali, facendole entrare in una rete. Quindi, quando l’agriturismo che ho finanziato riceve cinque ospiti che vengono da un’altra parte d’italia, gli offre anche la cultura del territorio. Abbiamo cercato di chiudere a 360 gradi, in maniera organica, con un progetto che guarda al futuro.

Questo l’abbiamo realizzato insieme. Siamo in un momento in cui parliamo poco tra noi. Occasioni come questa ricerca possono anche riaccendere il dibattito e quindi vi ringrazio, per discutere di questi argomenti, perché quando poi ci mettiamo insieme prevale sempre una visione frammentata dei problemi. Quando vado alla Regione e vedo l’assessore all’agricoltura, mi chiedono come avete fatto voi a realizzare tutto questo in tempi certi? Io dico solo che questo è dovuto al fatto che abbiamo avuto una stabilità politica e non abbiamo guardato all’appartenenza, ma abbiamo guardato al territorio. Sindaci che appartenevano un area politica, insieme ad altri di altre aree, sono riusciti a mettersi in unico progetto. Nella concordia si cresce.

AS: Insomma, mi sta dicendo che il caso dell’esperienza del GAL è una buona pratica anche dal punto di vista dei processi di governance del territorio. Tutti gli attori, almeno quelli istituzionali e imprenditoriali che sono stati adeguatamente coinvolti in quanto soci, hanno marciato insieme nella stessa direzione per realizzare un progetto di sviluppo locale.

Vorrei una sua riflessione sul fatto che emerge forte questa esigenza di ragionare sulla filiera. Abbiamo queste famiglie di allevatori che sono anche piuttosto numerose, almeno in alcuni luoghi, penso alla zona dei Montano Antilia, all’area di Casaletto, Tortorella e Caselle in Pittari oppure l’area di San Giovanni a Piro e Camerota, In queste aree ci sono ancora diverse famiglie che fanno allevamento sia di bovini sia di ovini e caprini. Poi, ci sono alcuni giovani che stanno facendo dell’allevamento brado o semi brado di maiali. Insomma, ci sono anche queste nuove generazioni che stanno arrivando, molti di questi giovani hanno alle spalle delle famiglie.

Credo che sia necessario provare a fare un ragionamento sull’organizzazione di filiera, tanto è che nell’ambito di questa ricerca sto cercando di coinvolgere oltre agli allevatori, i macellai, i ristoratori, i tecnici, dai veterinari agli agronomi. Credo che il futuro della zootecnia debba essere un tema che deve essere affrontato insieme. Stiamo cercando, nello spirito del GAL, di mettere assieme un po’ tutti i soggetti interessati al benessere del settore, per capire come potrebbe essere possibile trovare degli equilibri, perché credo che i margini siano bassi. Bisogna aumentare i margini, cercando di costruire un valore aggiunto maggiore.

C’è molto da fare, per esempio, anche sul piano della comunicazione, per far sapere che questi prodotti hanno delle qualità di eccellenza. Il ristoratore e il consumatore lo devono sapere, in modo che siano anche disposti a pagare qualcosa in più per avere dei prodotti salubri che sono fatti con certi criteri, con gli animali che mangiano le erbe, che non sono stati forzati, dove l’aspetto naturale è importante, è prevalente.

Vorrei che lei facesse una riflessione su questo tema della filiera, perché da una parte ogni azienda può internalizzare più pezzi della filiera, però forse si potrebbe fare anche un ragionamento nuovo, da fare insieme, in modo che sia il territorio che si mette in gioco nel suo complesso.

PF: Credo che non sia una questione di soldi, perché i soldi ci sono. I progetti vengono valutati seriamente. I progetti innovativi, soprattutto, sono progetti che hanno e avranno un futuro. La questione è di studiare forme di innovazione dei prodotti e forme di chiusura della filiera a 360 gradi.

Una delle mie vecchie idee è quella che il GAL, per esempio, si debba trasformare in un’agenzia di sviluppo. Questo significa prendersi carico di tutta una serie di problematiche legate alla filiera che va dalla produzione alla trasformazione, alla comunicazione, al mercato. Questa è la mia idea e chiaramente su questo è fondamentale e la cooperazione con gli enti di ricerca, con le società che si occupano di comunicazione. Però, per fare tutto ciò dobbiamo sforzarci, come singole aziende, ad essere capaci di proporre prodotti che sono innovativi, che non si trovano in altre parti del territorio, partendo dal presupposto che i pascoli, l’acqua, l’aria fanno la differenza. Partendo da questa base dobbiamo diversificarci rispetto ad un modo diffuso di fare allevamento che è quello in stabulato fisso intensivo, che che sappiamo che non è un bene né per gli animali né per la produzione. Sa che significa una capra o una mucca che invece di stare in una stalla mangiare a fieno secco, esce a mangiare erbe, foglie e tutto quello che trova nella macchia mediterranea? Significa portare nel latte delle sostanze che altrimenti non ci sarebbero mai, quindi migliorare le produzioni.

Le faccio un esempio. Siamo riusciti, noi proprio come azienda, a fare un progetto molto interessante con l’Università degli studi di Salerno – ecco qui ricerca e innovazione – e con il Centro sperimentale di Bella, per capire gli animali che si nutrono delle essenze locali, che portano poi nel latte? Stiamo facendo una ricerca sulla produzione e sulla affinatura del formaggio con le erbe officinali che crescono nel nostro territorio. Questo progetto si chiama Caprini Erbosi e ha l’obiettivo di utilizzare le nostre erbe, sia per farle mangiare agli animali sia per confezionare i formaggi, affinarle con queste erbe per dare al territorio una connotazione e una particolarità che in altri luoghi non si può avere. In questo modo aggiungiamo formazione e innovazione. Questo ci gioca positivamente anche sulla comunicazione, perché se si riesce a caratterizzare un territorio, si vende non solo il prodotto, ma anche il territorio.

Su questo possiamo lavorarci. Credo che anche il vostro progetto sia assolutamente utile, anche al fine di creare la mentalità e la capacità di mettere insieme le varie esperienze. La Consulta degli Allevatori credo che sia una cosa utile. Mettersi insieme per discutere e capire quali sono le esigenze degli allevatori. Spesso le esigenze sono comuni e si possono risolvere anche in modo comune, utilizzando magari esperienze diverse.

AS: Si può costruire una progettualità. Credo che sarebbe utile che ci sia uno scambio rispetto al progetto Caprini Erbosi e il nostro, perché il nostro non è molto lontano da quei temi. Io mi occupo della parte di ricerca con gli allevatori, però c’è tutta la parte scientifica che invece vede anche l’Università di Salerno, ma è più legata all’Università di Napoli, con il Dipartimento di Scienze Agrarie e quello di Medicina Veterinaria. Loro lavorano proprio sulle modalità di alimentazione degli animali. Stiamo sperimentando e testando l’applicazione del Metodo Nobile, ossia per i ruminanti un 70% di erbe e fieni e solo un 30% di granelle, leguminose e cereali. Viene fatta un analisi di laboratorio sulle erbe e sui prodotti – latte, carne, uova, salumi e formaggi – per dimostrare che i polifenoli e le molecole che ci sono dentro questi prodotti li rendono qualitativamente diversi rispetto a prodotti che uno può trovare al supermercato, cioè quelli che vengono da allevamenti intensivi.

PF: 15-20 anni fa a Natale e a Pasqua si regalava e mangiava il capretto. Questa era anche una economia per l’allevatore di capre.

AS: Oggi, quello dei capretti è un tema molto spinoso.

PF: I capretti non li mangia più nessuno e lo sa che bisogna venderli a due euro al chilo? Tra poco il capretto diventa un animale di compagnia, come i gatti e i cani, quindi non si mangeranno. Bisogna fare attenzione che cambieranno anche le abitudini alimentari. E’ cambiato anche il giusto. Le nuove generazioni fanno fatica a masticare anche la carne, anche le fettine, per cui quello che va di più, per esempio, è l’hamburger. Immagini di andare sul mercato con un hamburger che non ha conservanti, che gli animali sono cresciuti all’aperto e senza l’utilizzo di ormoni o antibiotici. Visto che per i ragazzi e i bambini i genitori farebbero di tutto, se riuscissimo ad andare sul mercato con un hamburger biologico di questo tipo, con una una comunicazione corretta, sarebbe una rivoluzione. Noi le rivoluzioni non le dobbiamo andare a cercare altrove, ce le abbiamo in tasca, dobbiamo solo avere l’intelligenza di capire il mondo dove va. Cambiano i gusti alimentari e cambiano le metodiche di allevamento, però la tradizione legata alla naturalezza e alla salubrità dell’alimentazione è una cosa che ancora attira e che potrebbe fare la differenza. Però, se non lo comunico, se non ho le capacità di comunicarlo, me la mangio io l’hamburger sana.

Dobbiamo far venire qua le presone e fargli vedere come le nostre mucche mangiano al pascolo e bevono l’acqua del ruscello. Sarebbe una rivoluzione in un piccolo spazio. Però bisogna comunicare e innovare. Poi, ci saranno i problemi per la macellazione e altro, ma dobbiamo anche avere la capacità di non lamentarci e di trovare soluzioni e innovazioni. Questo è l’unico modo per restare, perché il mondo è velocissimo. La burocrazia ci ferma e se poco poco ci arrendiamo alla burocrazia, noi ci troveremo 20-30 anni luce indietro rispetto a territori che fanno altro.

Secondo me, noi abbiamo tutte le qualità, abbiamo un territorio da raccontare, una cultura da raccontare, i prodotti raccontare, dobbiamo solo avere l’intelligenza di non investire solo in strutture, in stalle, ma anche nell’immateriale. Investiamo nella comunicazione e manteniamo una tradizione.

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