Luigi Diotaiuti, ristoratore e sommelier di origini cilentane con radici lucane e americane (ha un ristornate a Washington DC), fondatore della onlus Basilicata: a Way of Living, ambasciatore della cucina e dei prodotti agroalimentari italiani nel mondo, tesse le lodi del bovino podolico e della cultura alimentare ad esso collegata. Riflette anche sull’importanza del modello della gastronomia di territorio per lo sviluppo del Cilento.
Alessandro Scassellati (AS): Salve a tutti. Siamo con Luigi Diotaiuti, un ristoratore, sommelier, fondatore della onlus Basilicata: a Way of Living che opera in Basilicata per promuovere lo stile di vita ed alimentazione della dieta mediterranea. Con Luigi vorremmo fare due ragionamenti. Il primo sulla carne bovina della podolica, perché Luigi nella sua attività di chef e di promotore – lui è anche un personaggio televisivo – ha fatto un lavoro di promozione sull’utilizzo alimentare della carne podolica. Siccome la podolica è il bovino storico sia in Cilento sia in Basilicata arrivato con i Longobardi dalla Podolia, regione dell’Ucraina, per cui è sui nostri territori da diversi secoli. Però, in questi ultimi anni in Cilento la valorizzazione di questo animale è un po decaduta, nel senso che sono stati fatti degli incroci, ma non è stata fatta una selezione genetica dell’animale. In passato la podolica era un animale molto piccolo, per cui gli incroci sono serviti per farla aumentare di dimensioni in modo da cercare di avere dei manzi più formosi per poterli poi utilizzare meglio nei tagli.
A noi interessa questo animale perché il nostro progetto ragiona sul pascolo brado e semi brado come elemento fondamentale per avere poi dei prodotti che siano di qualità superiore, perché far mangiare le erbe è diverso da far mangiare mangimi. Su questo, per il Metodo Nobile, abbiamo tutta una parte del progetto che viene curata dall’Università di Napoli, con analisi di laboratorio per ragionare su molecole e polifenoli, e con il Dipartimento di Medicina Veterinaria che analizza e propone delle diete per l’alimentazione degli animali. L’ho fatta lunga e vorrei che tu ragionassi su questa tipologia di carne. Poi come secondo tema vorrei ragionare sulla gastronomia di territorio, allargando il quadro rispetto al tema di utilizzare i prodotti che ci sono nei nostri territori.
Luigi Diotiaiuti (LD): Intanto grazie per avermi contattato e un saluto a tutti i celentani. Ci tengo a dire che i miei bisnonni erano di Marina di Camerota, quindi le mie radici sono di quelle zone, poi un mio nonno se ne andò a Vibonati nel Vallo di Diano e un altro nonno al Fortino. Io me ne sono andato in America. Siamo una famiglia a cui piace viaggiare tanto. Detto questo, ricordo che storicamente il Cilento era parte della Basilicata, per cui è un territorio che a me sta a cuore tantissimo.
Voglio racchiudere in tre punti il mio ragionamento sulla podolica. Primo, hai detto molto bene che è una razza che sta sul territorio da più di un millennio, quindi c’è tanta storia. Tra l’altro, che ci tengo a dirlo, la podolica non è mai stata in conflitto con l’uomo, con i contadini, perché l’uomo non doveva scegliere se coltivare un campo oppure allevare la podolica, come magari avveniva per le pecore. La podolica preferisce stare all’aperto, allo stato brado, non tanto nelle stalle. Ci tengo a sottolineare che quello va tutto a vantaggio del consumatore che mangia la carne, perché è la mucca a decidere cosa mangiare, dove mangiare, quando mangiare a dispetto delle altre che vengono allevate in modo intensivo, perché in quel caso è sempre l’uomo a decidere quanta quantità e che qualità di cibo debbono mangiare e quando devono essere pronte con il peso per essere macellate. Questo è molto importante.
Il problema della podolica è sorto con l’industrializzazione dell’agricoltura, perché una volta la mucca podolica dava all’uomo latte, carne letame e soprattutto forzalavoro. Essendo un animale molto flessibile e anche forte, riusciva a dare tutto questo insieme al contadino. Addirittura nella mia famiglia, perché ci tengo a dire io sono cresciuto con 150 mucche podoliche in media e 250 capi di animali considerando tutto il resto, come d’altra parte avveniva per tutte le altre famiglie contadine fino agli anni ’70. Noi tra l’altro come famiglia eravamo fortunati perché avevamo due pariglie, ossia due coppie di buoi, equivalenti ad avere due trattori. Mi ricordo che fino al secondo anno di scuola alberghiera, a 15 anni, andavo a fare le giornate di lavoro di aiuto agli altri agricoltori, per cui invece di farsi pagare quando si deve arare la terra o trasportare qualcosa. Giornate che poi a loro volta i contadini restituivano nella stessa quantità in base a quello che si aveva bisogno, magari alla raccolta del granturco o alla mietitura del grano, la trebbiatura e la pesatura. Con la modernizzazione dell’agricoltura questo è venuto meno. La mucca podolica non ha onestamente una grande resa di carne, come altre varietà di altre mucche, per cui non è stata presa in considerazione. Negli ultimi 40 anni c’è stata un’evoluzione, la gente ha abbandonato le campagne, ha abbandonato gli allevamenti delle podoliche. Ai miei tempi sul territorio degli appennini lucani si stima che ci fossero quasi mezzo milione di podoliche, mentre adesso forse ce ne saranno 30-35.000.
Sono venute meno, però c’è da dire che se non fosse per la podolica o per le capre, nel nostro territorio appenninico l’uomo non avrebbe accesso, perché loro permettono un equilibrio ecosistemico. Riescono a garantire la pulizia dei vari sentieri, dei tratturi. Una volta tolte loro, noi non avremo il piacere ave un accesso al territorio. Quindi, il tema della podolica è un discorso molto più intenso di quello relativo alla carne o al latte o ai formaggi. Bisogna anche tener presente il territorio, perché altrimenti come già abbiamo la desertificazione delle campagne, nel senso che i contadini non lavorano e producono più per vari motivi che non possiamo trattare in questa sede, la stessa cosa succederebbe per le montagne e questo sarebbe veramente un grave pericolo per quanto riguarda l’ecosistema che già è in pericolo e molto debole in questo momento.
Secondo punto. Io ho iniziato una campagna già da diversi anni per educare i consumatori. La gente che consuma la podolica. Perché purtroppo ci manca la cultura del saperla gustare, del saperla trattare. Purtroppo ancora c’è questa cultura di macellare giovedì o quello che è e di comprare la carne e mangiarla la domenica. Questa è una cosa quasi impossibile con la podolica, anzi addirittura questo può anche fare male, perché è un bovino che fa 20 km giorno e quindi ha bisogno di una lunga frollatura, anche di più di un’altra mucca che viene allevata in modo stanziale. Stiamo parlando di un mese, se non cinque settimane. A me quello che mi fa impazzire è il fatto che ho vissuto dieci anni in Toscana per lavoro, a Montecatini. Quando si va in un ristorante in Toscana che tratta la carne ci si rende conto che come si entra, o a destra o a sinistra o comunque in una parte del ristorante, c’è la famosa cella trasparente dove la chianina, la loro mucca, viene frollata. Quindi, si sente subito questo odore bellissimo di carne frollata. Quando la vai a mangiare, ovviamente è un burro, si taglia con la forchetta. Io dico, perché non si può fare anche da noi? E’ una carne rossa che esprime il meglio di sé stessa con una cottura al sangue o media. In effetti, in Toscana la famosa fiorentina di tre chili è viene cucinata quattro minuti da un lato e quattro minuti dall’altro, poi se la tagli in mezzo è calda, ma cruda. Con un ottimo olio dà il meglio di sé stessa. Perché questo non possiamo farlo anche noi in Cilento, in Basilicata o nel Sud Italia, o comunque dove c’è la podolica? Questo è importante.
Il terzo punto è quello che sto cercando di far capire a diverse associazioni tra cui l’Associazione regionale allevatori (ARA), il Dipartimento dell’agricoltura e altre associazioni, che sulla podoloca bisogna fare gruppo, fare filiera. Si potrebbero mettere delle celle per la frollatura nei vari macelli, avere un contatto con gli allevatori. Perché se si parla con gli allevatori della podolica il problema numero uno è che nessuno ti compra le mucche podoliche oppure te le sottovalutano. Pertanto, si perde un prodotto che è protetto come la podolica, si perde un altro prodotto come il caciocavallo che è anch’esso protetto. Poi, cosa succede? I giovani se ne vanno e si perdano migliaia di persone che che sono impegnate in un qualcosa che è protetto e che noi dovremmo massimizzarlo e modernizzarlo. Invece no, lo abbandoniamo a sé stesso. Quindi, bisognerebbe fare gruppo, far sì che siano tutti in contatto, gli operatori della domanda e quelli dell’offerta, della produzione della podolica. Quello che mi fa ricrescere i capelli è che spesso sento personalmente da altri è che viene la gente negli agriturismi, viene la gente nel territorio lucano e chiedono la podolica, ma nessuno ce l’ha. Dicono perchè costa troppo. Non è questione che costa troppo, è perché ripeto non c’è quella cultura di come trattare questa carne. lo da chef, da buongustaio so benissimo che è un prodotto per gustarlo va conosciuto e che si può portarlo al vertice (peak) per dare il meglio, la migliore sensazione che il prodotto ci può dare.
AS: Ti ringrazio perché tu, senza saperlo, hai centrato alcune delle questioni fondamentali di questo percorso che stiamo facendo con la ricerca con gli allevatori. Questo tema dell’associazionismo, della cooperazione, della filiera che è un tema fondamentale, ma non tanto semplice da trattare in pratica, perché tu lo sai che purtroppo prevale ancora l’idea che ciascuno deve essere padrone in casa sua. Però, oggi questo non ha molto senso, considerando anche le dimensioni di molte di queste aziende, che poi alla fine sono molto piccole e da sole non riescono ad andare da nessuna parte.
LD: Sono d’accordo, però comunque da qualche parte bisogna iniziare. La mia onlus, Basilicata Way on Living, ormai agisce sul territorio con diversi progetti, tra cui ci tengo a dire che sono più di vent’anni che ho dedicato la mia carriera a promuovere il Sud Italia, la Basilicata in particolare, nel mondo, non solamente a Washington o in Italia, devo dire che anche grazie alle mie spinte – questo è molto importante per rispondere a quello che dici tu che purtroppo è difficile fare gruppo e filiera – la parola transumanza è diventata patrimonio dell’Unesco e questo va anche detto. Cioè, noi dobbiamo immaginare questi problemi con un’enorme palla di neve che inizia dal monte che è una piccola pallina, ma poi rotola, rotola giù e quando arriva in fondo è una valanga. Quindi, da qualche parte va iniziato, bisogna per forza iniziare ed è importante che il pubblico, soprattutto i giovani venga coinvolto. Grazie ai miei eventi, di cui uno dei quali è la festa della transumanza di Sirino, che è una due giorni che si fa ogni anno a giugno sul Monte Sirino e al Lago Laudemio, ci sono stati giovani che hanno visto perché si spinge su questo tema e hanno deciso, invece di andare via, di aggiungere altre mucche della loro famiglia e di continuare questo lavoro che sta scomparendo, ma che è importantissimo, ripeto, non solamente per la carne, latte e formaggio, ma soprattutto per il territorio che va regolato e loro lo regolano.
AS: Ti chiedo di fare un ragionamento sulla gastronomia di territorio, cioè sul fatto che questi nostri territori hanno dei prodotti fantastici dal punto di vista qualitativo, dei sapori e dei profumi, però per esempio nel caso clamoroso del Cilento succede che d’estate ci sono milioni di persone che arrivano sulla costa e non mangiano quasi nessuno dei prodotti del Cilento, perché lì c’è una logica complessa legata ad una stagione che dura due mesi. Quindi, paradossalmente si finisce per utilizzare i prodotti della ristorazione industriale. Invece, se si va nell’interno si trova ancora la ristorazione di territorio, ma molti di questi turisti non sanno neanche che c’è un interno, perché non lo sono interessati quasi esclusivamente a qui 400 metri che vanno dalla battigia fino al loro albergo o al loro appartamento o campeggio dove dormono.
LD: Non sono completamente d’accordo con quanto dici. Il punto è che i turisti non trovano perché non c’è a disposizione. Devi immaginare la ristorazione, l’albergo, la vacanza come una televisione. C’è una televisione che ha cinque canali, quelli che prende l’antenna sopra un tetto, e una televisione che ha il decoder e prende 300 canali. Allora, chi ha 300 canali può vedere Discovery o Sky, può vedere qualsiasi tipo di canale. Chi ha la televisione solamente con l’antenna vedrà solo quei quattro canali più abbordabili. Per cui, bisogna fare una distinzione, purtroppo come in tutti i settori anche nella ristorazione, negli agriturismi e tra i cuochi c’è arrivismo, inteso come fare un lavoro per guadagnare qualcosa, senza che ci sia una certa personalità o una strategia o un qualcosa per dire che io faccio questo. Questo va pure detto.
Ogni volta che faccio un progetto cerco sempre di coinvolgere i giovani, le scuole alberghiere particolare o le scuole agrarie o comunque anche le scuole superiori e magistrali. L’ho fatto spesso proprio perché noi dobbiamo trovare il modo di coinvolgerli. Purtroppo, c’è una certa generazione che non c’è niente da fare, magari avranno le loro idee, per carità tutto il rispetto possibile, perché comunque vengono da un’educazione e da una cultura che era impostata un certo modo, però possiamo lavorare sul futuro e coinvolgere dei giovani. Educare i giovani per fargli capire qual è il territorio, chi siamo noi e la nostra cultura, soprattutto i nostri prodotti.
Questo posso dirlo con tanta positività è un po’ la testimonianza che ci ha lasciato Expo 2015. Noi fino al 2015 vivevamo nella globalizzazione. L’Expo 2015 ci ha fatto capire l’importanza dell’essenza di appartenenza, l’individualità, il fatto di essere lucani e in questo caso cilentani, di Lagonegro o di Sapri o di un altro paese, perché abbiamo un’identità nostra, una cultura nostra, prodotti nostri e questo è importantissimo. Questo si dimostra anche in tantissimi ristoranti che sono tornati a fare le ricette antiche della nonna con i prodotti locali. Si parla tanto del chilometro zero e questo è stato accentuato dopo Expo 2015. Expo 2015 ci ha fatto anche riflettere sul problema dello spreco di cibo. Il grande spreco di cibo buono, almeno il 45% viene sprecato o buttato, quando ogni giorno sappiamo che ci sono 830 milioni di persone che non hanno mangiato ieri, che non mangiano oggi, e forse non mangeranno neanche domani. Quindi, noi prima di andare a letto la sera ci dobbiamo chiedere perché? Che cos’è che non funziona in questo sistema?
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