Benedetto Chirico, fondatore e comproprietario con i suoi tre figli della Tenuta Chirico, un’azienda zootecnica bovina e bufalina con caseificio, racconta la sua storia e riflette sul futuro del settore zootecnico in Cilento. Chirico ritiene che il settore offra delle opportunità ai giovani, ma che sia necessario tanto impegno, lavoro e un’apertura mentale verso l’innovazione tecnologica e gestionale.
Alessandro Scassellati (AS): Salve a tutti. Siamo con Benedetto Chirico che è il fondatore e comproprietario, insieme con i suoi tre figli, della Tenuta Chirico, un’azienda che mette insieme l’allevamento bovino e bufalino e la caseificazione, con un approccio molto dinamico al mercato locale e più ampio. Benedetto, tu sei uno dei pochi che io conosca che è riuscito con successo a convincere i propri figli a seguire l’attività paterna con passione. Un’attività in cui certamente ci hai messo tanto lavoro. Hai fatto un percorso significativo. Sei partito quasi da zero sull’allevamento e sei riuscito a mettere in piedi un’azienda che certamente è un’azienda di eccellenza in tutto il Cilento e forse anche in tutta la Campania Vorrei che tu brevemente ci raccontassi il percorso che hai fatto, da dove sei partito e anche quale è stata la tua filosofia.
Benedetto Chirico (BC): Grazie. Allora io sono partito da ragazzo con i terreni in fitto e con una vacca, tenendo presente sempre la famosa economia contadina che è basata soprattutto sulla filiera corta. Almeno il contadino di un tempo faceva un’agricoltura di sussistenza, di autoconsumo e io sono partito così. Poi, da una vacca solamente, man mano che ho potuto economicamente, è cresciuto il numero degli animali per arrivare ai giorni nostri. Oggi, sono presenti in azienda circa 500 capi tra bufale e vacche, in prevalenza sono bufale.
Un passaggio molto importante della mia vita è stato negli anni ’90, allorché strapieno di debiti, come sempre, perché sono stato sempre un pazzo, fui colpito da una crisi del prezzo del latte. Mi fu diminuito il prezzo del latte. All’epoca vendevo il latte, per cui avevo la necessità di recuperare questo taglio che avevano fatto. Ho giocato la carta della trasformazione per recuperare questi soldi che mi venivano tolto. Da là è iniziata l’avventura della trasformazione, all’epoca solo del latte vaccino, con un cavallo da battaglia molto forte: la famosa mozzarella della mortella, che è la mozzarella tipica del Cilento. Era quasi scomparsa e l’ho riportata alla luce.
Dopodiché ho introdotto anche le bufale nell’azienda con la trasformazione del latte anche di bufala, producendo le famose mozzarelle che tutti conoscete. I passaggi successivi sono stati la produzione di yogurt e di gelato. Quindi, man mano l’azienda si è arricchita di una vasta gamma di prodotti e parallelamente anche dei terreni, perché non dobbiamo dimenticare che dietro tutto questo mondo ci sono i terreni. Noi oggi coltiviamo circa 70 ettari di terreno, in gran parte di proprietà, altri invece in fitto. Terreni che sono coltivati a foraggere e che quindi ci permettono di alimentare il nostro bestiame in autosufficienza.
Poi, pensai di valorizzare anche i reflui zootecnici e quindi l’azienda è stata dotata di un impianto per la produzione di biogas. Questo è stato un altro grande passo che ha messo l’azienda al riparo anche da eventuali crisi economiche. Utilizzando i reflui in questo impianto di biogas che cosa è successo? Produciamo energia pulita. Abbiamo dato una mano all’ambiente, perché emettiamo molta meno CO2 ed è un grosso integratore di reddito per l’azienda.
A questo punto, l’azienda ha fatto tutto a 360 gradi. Abbiamo la famosa cosiddetta economia circolare. Naturalmente, io mi chiamo Benedetto e sono benedetto di fatto e non solo di nome, perché il padreterno è stato molto generoso con me. Oltre ad aver incontrato una brava moglie, poi ho avuto la fortuna di avere tre figli stupendi che, ahimè, si sono lasciati influenzare dall’amore che avevo per l’azienda. Oggi, questo amore ce l’hanno anche loro e vogliono continuare questo percorso. Non ho dovuto lavorare per trasmettere questo, ma l’hanno fatto di spontanea volontà e con grande amore.
Questo, in sintesi il percorso che ho avuto. Molto intenso, molto faticoso, però senza mai stancarmi.
AS: A completare questo quadro che tu hai fatto, ti volevo chiedere del rapporto con il mercato. Dicevi che fino ai primi anni ‘90 eri un conferitore di latte e da allora ti sei messo a fare anche trasformazione, partendo dalla mozzarella nella mortella, per poi ovviamente avere anche le bufale e hai fatto anche la mozzarella di bufala. Ora, questi prodotti oltre a venderli direttamente nel tuo negozio/caseificio, hai anche costruito una rete di rapporti esterni? Ci racconti questo aspetto, perché tu hai 500 animali e questo significa che hai un volume di produzione notevole. Oltre al mercato locale, vai anche verso un mercato più ampio?
BC: La commercializzazione rimane uno dei passaggi più complessi, più complicati che ci siano, nel senso che noi abbiamo cercato di stabilire qualche rapporto fuori, però sostanzialmente l’azienda fa ben poco fuori. Per noi è molto importante invece lo spaccio che abbiamo in azienda, la vendita diretta al consumatore. Noi siamo in una zona decentrata, quindi lontano dai grossi centri urbani, quindi siamo un poco penalizzati per raggiungere mercati più più ampi, ma ricorrendo alla filosofia contadina penso che per avere dei buoni margini bisogna vendere direttamente al consumatore. Per questo per noi la cosa più importante è il consumatore finale. I clienti che vengono al nostro punto vendita, comprano, ci pagano e vanno via contenti, loro perché ricevono un ottimo prodotto fresco e siamo contenti noi che tutto finisce subito. L’approccio con la distribuzione è complicato. Siamo stati presenti sulla distribuzione locale, ma poi anche questa abbiamo finito per toglierla di mezzo.
Adesso come ci regoliamo? Avendo una notevole quantità di latte a disposizione, in questi mesi invernali, soprattutto, noi abbiamo un surplus di latte che vendiamo. Trasformiamo quello che ci serve e il resto lo vendiamo. In questo modo, il problema è risolto e non ci affatichiamo a svenderci perché abbiamo una quantitativo di formaggi e di mozzarelle che non sappiamo come venderlo.
AS: Questo latte lo vendi dove? Nella Piana del Sele?
BC: Il latte bufalino lo compra un caseificio della Piana del Sele, invece il latte vaccino lo compra quella Cooperativa Piana del Sele, appunto, che a sua volta rifornisce la centrale del latte di Salerno.
AS: Vorrei che tu ragionassi sul ruolo della zootecnia nel territorio del Cilento, considerando però che il tuo modello è difficile da seguire in termini di dimensioni – i 70 ettari, piuttosto che i 500 capi -, quindi sei una grande azienda per il Cilento, anche se in Italia ci sono aziende che hanno anche 5 mila bovini. Poi, gli altri allevatori sono più legati alla pratica della transumanza e del pascolo semi brado, con un numero di capi molto più ridotto e con anche forse una specializzazione meno sul latte e più sulla carne, più legata a quelle che sono le popolazioni autoctone storiche del Cilento, ossia la podolica per i bovini, la cilentana per i caprini, la bagnolese per gli ovini. Vorrei che tu mi dicessi il tuo punto di vista rispetto a questo altro modo di lavorare, di fare allevamento.
BC: Parliamo di un settore che io conosco come spettatore, ma credo che il punto dolente, la grande criticità che hanno sia che sostanzialmente la pastorizia con l’allevamento semi brado non ha avuto un’evoluzione in linea con i tempi. Vale a dire che pur rispettando le tradizioni, però il mondo cammina, si evolve. Lì secondo me, l’evoluzione è venuta a mancare, anzi, vedendo sempre da fuori, credo che abbiano fatto un passo di dentro. Vale a dire, i pastori di una volta trasformavano il loro latte e vendevano il formaggio sul mercato locale. Ho conosciuto nel passato dei pastori che avevano fatto delle fortune economiche di tutto rispetto proprio con la pastorizia. Cosa che oggi questo non avviene più. I perché sono tanti. Quello più facile da individuare è che prima dietro a queste greggi e bestie c’era una famiglia e quindi c’era abbastanza manodopera che consentiva di fare la mungitura, la trasformazione e la commercializzazione. Oggi, questo nucleo familiare non esiste più e non avvenendo la trasformazione tecnologica al passo con i tempi, ecco che la mungitura non si fa più, la trasformazione non si fa più. Secondo me, è lì ci sarebbe da partire da questo, vale a dire il giovane pastore che intraprende quel percorso non è pensabile che lo faccia come l’ha fatto il nonno. Pur rispettando il pascolo, però l’allevamento va fatto con i mezzi moderni. Quindi, questo secondo me è il punto dolente.
Se il pastore non riesce a trasformarsi il proprio latte o la propria carne può smettere di fare il pastore, perchè non avrà un reddito adeguato per poter andare avanti. Questa è il mio messaggio.
AS: Molto chiaro. Quindi, da una parte tu dici che bisognerebbe comunque costruire un’azienda, non necessariamente come la tua, ma che abbia un valore aggiunto da dei processi di trasformazione che sono a valle dell’allevamento. La caseificazione e la trasformazione delle carni. Alcuni lo stanno cercando di fare con dei piccoli caseifici aziendali e anche con piccoli laboratori di trasformazione. Ma, tu non pensi che proprio perché sono piccole aziende forse bisognerebbe ritornare ad avere dei punti di aggregazione delle produzioni, cioè dei caseifici a cui si può conferire e che ti diano anche dei prezzi che non siano quelli dalla Romania. Oggi. sappiamo bene che per un litro di latte ti danno 39 centesimi, ben poco.
BC: Pur essendo un grande fautore dell’aggregazione, nel caso del settore dei pastori lo vedo un poco più difficile, perché immaginiamo che abbiamo i pastori molto dispersi sul territorio e questo fa nascere tante problematiche per il conferimento del proprio latte la mattina. Ma, noi non dobbiamo dimenticare una cosa, che il modello che ho avuto io non è che necessariamente se non si è così non si può fare fortuna. Assolutamente no. Anzi posso affermare che gli anni in cui economicamente abbiamo avuto più reddito sono stati quando si era più piccoli. Adesso abbiamo reddito perché l’azienda è grossa e complessa. Pensa che mia madre ha cresciuto noi figli, che eravamo in cinque e alcuni sono andati anche a scuola, hanno studiato. Tutto questo con due vacche, trasformando il latte di due vacche. Il chiodo mio è sempre questo, cioè il pastore che riesce a trasformare e a valorizzare il suo latte e la sua carne, una giornata di tutto rispetto se la guadagna. Se non riesce a fare questo non avrà un futuro.
AS: Però, è anche un po’ complicato fare questo su un territorio dove, se parliamo della carne, ci sono solo due macelli che funzionano da Santa Maria di Castellabate a Montesano. Si tratta di fare parecchi chilometri e questo incide sia sul benessere animale sia sui costi. Non pensi che le amministrazioni pubbliche debbano ragionare e forse assumersi delle responsabilità nei confronti di questi allevatori? Cercare di fornirgli qualche servizio?
BC: Secondo me, il compagno di avventura che ciascuno di loro deve cercare, lo devono cercare in loro stessi. Mi dispiace doverti contraddire. Per scendere con i piedi sulla terra, quello che dici tu non può stare con i piedi per terra e ti spiego. Se un pastore dopo la mungitura va a conferire il suo latte ad una struttura, in questa struttura ci saranno immagino degli operai che andranno a fare la trasformazione, poi ci sarà un altro che farà la commercializzazione. Ma, i pastori che cosa hanno fatto? Hanno solo munto le vacche e in un certo senso è come se il loro latte l’avessero venduto. Niente di più, perché poi questo valore aggiunto è un’altra struttura che lo crea e questa struttura, per reggersi in piedi ha i suoi costi.
AS: Scusa, capisco che c’è una difficoltà in Cilento a ragionare su come funziona la cooperazione e che siano anche passati tanti anni, però una volta c’erano le strutture cooperative di cui pastori/agricoltori erano co-azionisti e poi si potevano prendere un pezzo del valore aggiunto che veniva creato attraverso la trasformazione e la commercializzazione. Quindi, questa potrebbe essere comunque una strada. Poi, certo in Cilento è difficile ragionare sulle forme cooperative…
BC: No, mi dispiace doverti contraddire, ma non è così, perché teoricamente questa struttura, questa cooperativa è vero che è dei propri soci e che quindi questo valore aggiunto va anche ai soci. Però, questa struttura per reggersi all’impiedi ha dei costi e quindi quell’utile viene mangiato dai costi. Mentre il valore aggiunto lo deve creare il pastore in proprio, vale a dire il pastore che porta il bestiame al pascolo ha tanto di quel tempo libero che nulla più. Bisogna che il pastore si evolva. Durante la giornata questo che fa? Per guardare il bestiame si possano fare i recinti elettrici. Ci sono tanti modi per gestire gli animali. La mungitura può essere meccanica. Avrebbe tanto tempo libero e questo tempo libero lo dovrebbe impiegare a trasformare, a chiudere il suo cerchio. Tutto al più, una struttura cooperativa, secondo me, avrebbe senso magari per conferire l’invenduto. Faccio 10 chili di formaggio, ne ho venduti 5 e gli altri 5 li potrei portare alla cooperativa che me li va commercializzare. Questo dovrebbe essere una chance. Se io porto il mio latte alla cooperativa, a parte i costi per tenerla in piedi, per la commercializzazione deve cercare un mercato e quindi rischia di far abbassare i prezzi. Riuscire a vendere un caciocavallo, la mozzarella o un pezzo di formaggio direttamente al consumatore questo è per la pace e per il bene di tutti. Ripeto il pastore ha tanto tempo libero che non sa più che cosa fare. Che cosa fa durante il giorno?
AS: Nelle prossime settimane faremo queste interviste con i pastori e cercheremo di capirlo.
BC: Un pastore che vuole macellare una bestia, ti posso assicurare che qui ci sono delle strutture che le vengono a prendere, le macellano e poi da là si possono mandare in altre strutture dove lavorano la carne e te la restituiscano impacchettata. Quindi, non è che non è possibile, è che bisogna uscire dall’orticello, guardarsi intorno e vedere che cosa c’è. Bisogna modernizzare il settore, però è impensabile che il comune o chi per lui gli faccia il macello in prossimità, perché rimaniamo sempre nel discorso della gestione di queste strutture. Cioè, a farle si possono anche fare, ma gestirle diventa complicato. La struttura di Castelnuovo Cilento è stata abbandonata a se stessa perché lì c’erano problemi per l’inquinamento acustico e per i cattivi odori. Il comune ha perso pure la causa con il gestore e gli ha dovuto dare dei milioni di lire. I problemi sono complessi, ma oggi pensare di gestire un macello che macella 50 capi al mese, non è possibile.
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