Donato Cusatis, veterinario di Roccagloriosa, riflette sui temi del benessere animale, dell’alimentazione, del pascolo semi brado e di una nuova generazione di allevatori che sembra essere interessata a cooperare. In Cilento ci sono buone pratiche, ma anche diversi nodi critici da sciogliere.
Alessandro Scassellati (AS): Salve a tutti. Siamo con Donato Cusatis un veterinario di Roccagloriosa che tra i suoi clienti ha molte molte aziende della zootecnia che operano nel territorio del GAL Casacastra. Con Donato vogliamo ragionare partendo dalla sua esperienza, cioè dal rapporto che ha con con gli allevatori. In particolare, vogliamo capire se tra questi allevatori che tu segui ci sono dei giovani o comunque se dentro queste famiglie che gestiscono gli allevamenti ci sono dei figli e dei nipoti. Insomma, se c’è una nuova generazione in arrivo.
Donato Cusatis (DC): Io lavoro per lo più sul basso Cilento, ossia su quasi tutto il territorio interessato dal GAL Casacastra. Sono un libero professionista e diverse sono le aziende che seguo. Molte hanno dei figli o dei nipoti che stanno continuando l’attività, seppur con notevoli difficoltà che sono legate al territorio, ma anche all’approccio con la burocrazia, perché hanno intenzione di aumentare il numero dei capi, di far crescere e migliorare l’azienda, però trovano sempre degli ostacoli non sempre facilmente sormontabili. Quello che io offro è l’assistenza dal punto di vista medico-veterinario ad aziende che sono per la maggior parte allevamenti allo stato semi brado. Parliamo di ovini e caprini per lo più, ma anche bovini. Poi, seguo anche altre delle aziende che operano più a livello di autoconsumo, piccoline.
AS: Vorrei che ragionassi sul tema del benessere animale. Stiamo parlando, come dicevi, di un allenamento generalmente semi brado, però negli ultimi anni il numero degli animali è aumentato in molte aziende. C’è un tema che sta emergendo e che si riferisce alla difficoltà di accesso all’acqua soprattutto nei pascoli di alta collina o di montagna. Poi, c’è un tema legato al sovrapascolo, nel senso che sono aumentati molto gli allevamenti dei bovini. Sappiamo che i bovini bevono e mangiano molto di più degli ovini e caprini. C’è un tema del degrado del pascolo, perché da una parte c’è il discorso dei rovi, delle piante infestanti e della crescita del bosco, dall’altro c’è anche il fatto che molti di questi pascoli non possono essere lavorati e migliorati, perché stanno dentro aree demaniali. Racconta un po che tipo di impatto hanno tutti questi fattori su quello del benessere animale, oltre che ovviamente sulla gestione di un’azienda d’allevamento per quanto riguarda l’alimentazione degli animali.
DC: Il problema è grande perché i pascoli si stanno riducendo, un po perché la macchia mediterranea avanza, un po perché dove è pulito abbiamo il problema dei cinghiali che distruggono i campi. Dal punto di vista del benessere animale se ne risente molto soprattutto per come stanno andando le annate, ultimamente molto siccitose. Anche quest’anno abbiamo visto che nei pascoli di altura, già nel mese di agosto il foraggio era finito. Quindi, si è dovuto ricorrere al supporto del fieno e del foraggio cosa che non è facile, perché non è molto facile accedere a questi pascoli. C’è stato anche il problema dell’acqua perché con l’annata siccitosa le le varie raccolte d’acqua sono venute a mancare. Si è dovuto provvedere anche portando l’acqua nei pascoli. Il degrado c’è soprattutto per l’allevamento dei bovini, perché il nostro è più un territorio fatto per gli ovicaprini. Non è tanto da bovini in quanto non c’è molto da mangiare. Come dicevi tu, i bovini consumano molto di più e per produrre bene hanno bisogno di un pascolo più abbondante. Se invece prendiamo i caprini, come la capra cilentana, si adatta ad un pascolo più povero e mantiene forse anche meglio i pascoli perché distrugge delle erbe infestanti che i bovini e difficilmente aggrediscono, come i rovi. Poi, dal punto di vista della gestione, per le intemperie durante il mese invernali, quando fa freddo, riparare delle mandrie ovicaprine è più semplice, ci sono dei ricoveri per questi animali, mentre per i bovini risulta più difficile avere delle strutture in grado di ricoverare un gran numero di animali. Per lo più sono limitate a dei ricoveri che vengono utilizzati per i vitelli, per gli animali più giovani, più piccoli, mentre gli adulti sono alle intemperie anche nei mesi invernali. Pertanto, credo si sarebbe dovuto preferire l’aumento degli ovicaprini più che dei bovini in zona.
AS: E’ più un territorio vocato per gli ovicaprini che per i bovini. Per quanto riguarda le razze o delle popolazioni animali presenti, per i bovini parliamo soprattutto di bovini da carne della tipologia podolica oppure parliamo anche di qualche cosa di diverso?
DC: Di podoliche o meticce, frutto di incroci con le podoliche. Sono loro che si adattano di più al tipo di pascolo che abbiamo per i bovini.
AS: Questi incroci con le podoliche sono fatti con quali altri animali?
DC: Chi fa più un pascolo di montagna, sempre con razze italiane, tipo la romagnola, che è quella che si adatta meglio al pascolo che abbiamo, e in parte anche con la marchigiana e la chianina. Poi, vengono introdotti di solito di alcuni casi dei tori da carne tipo i francesi limousine e chevrolet, però questi non sono degli animali che poi vanno al pascolo. Sono introdotti solo per fare dei vitelli da ristallo.
AS: Alcuni degli intervistati hanno sottolineato il fatto che la podolica del Cilento originariamente era molto più piccola di quella di oggi. Le attuali cosiddette podoliche sono tre quattro volte più grande di quelle del passato prossimo. Questo ha anche un impatto sia sul pascolo sia rispetto alla possibilità dell’animale di andare su certi territori. Certi terreni a pascolo sono anche molto scoscesi oppure ci sono i muretti e un animale più pesante rischia di farsi male, di cadere, oltre che di fa fare dei danni al terreno. Per quanto riguarda invece le capre e le pecore i problemi maggiori sembrano essere quelli della produttività degli animali. C’è la capra cilentana che è una popolazione autoctona, però poi chi vuole effettivamente fare il cacioricotta come attività economica, molto spesso sostituisce queste capre cilentane con le saanen o camosciate, perché il tema diventa quello di produrre di più e la cilentana produce poco latte. Vorrei anche che mi parlassi delle pecore.
DC:. Se posso fare una critica per quanto riguarda la cilentana, secondo me c’è stato un errore negli anni nella scelta selettiva, perché per lo più questa razza è stata selezionata solo dal punto di vista morfologico. La cilentana, secondo me, è un’ottima razza per il nostro territorio, ma è stata sbagliata negli anni la selezione, perché per lo più sono andati a selezionare gli aspetti morfologici della cilentana, mentre gli aspetti produttivi non sono stati mai valutati. Io in giro vedendo ho visto delle cilentane che hanno una buona produzione, anche se sicuramente non arrivano alla camosciata o alla saanen. Però, è anche vero che quel poco che ti danno te lo danno con un pascolo povero, quindi con un minore costo di alimentazione. Bisognerebbe fare un lavoro di selezione per la produttività, perché invece è stato fatto il contrario. Con l’aiuto degli incentivi europei al pascolo di montagna allora serviva il numero più che le produzioni. La capra che produce bene, che fa il latte è una capra che se non viene munta, non viene trattata, è un animale più soggetto a malattie, a mastiti e, quindi, naturalmente si selezionava da sola se non veniva munta. Cominciava avere dei problemi e andava scartata per problemi di salute addirittura a morire. Questo ha portato ad un impoverimento dal punto di vista funzionale della razza cilentana perché altrimenti nella cilentana ci sarebbero delle ottime produttrici. Quindi, questo secondo me è un errore che è stato fatto. Poi, introdurre la saanen e la camosciata sì, per le produzioni va bene, però non si adatta al pascolo dove va la cilentana. Non ci va la camosciata, non ci può andare proprio. Morfologicamente non è dotata per andare in quei pascoli, quindi si riduce a stare in stalla. Bisogna abbandonare il pascolo e passare all’alimentazione industriale. Bisogna dargli il fieno e oppure mangimi e concentrati.
AS: Per quello che riguarda le pecore che cosa hai visto negli ultimi anni. Com’è cambiato l’allevamento?
DC: L’allevamento delle pecore è stato un po’ altalenante, perché abbiamo diverse razze diffuse in zona. Per lo più la bagnolese che è la più diffusa nel Vallo di Diano ma ultimamente si sta diffondendo anche nel Cilento. Poi, ci sono altre razze mediamente produttive come la comisana oppure ultimamente anche la Valle del Belice come pecore importate, non proprio autoctone. Qualcuno invece ha puntato più sulle razze francesi da carne. Sulle pecore abbiamo un po’ di disomogeneità. C’e un po’ di tutto in giro.
AS: Secondo te, la tendenza quale dovrebbe essere? Su cosa bisognerebbe puntare anche considerando le caratteristiche del territorio?
DC: Secondo me, la comisana è quella che si adatta bene al territorio, più che puntare su quelle che producono più latte, tipo la Valle del Belice che in questo momento sta andando per la maggiore. La comisana si adatta bene al pascolo ed è mediamente produttiva. E’ un animale non troppo grosso di statura e si adatta bene ai pascoli collinari e di montagna. Già la bagnolese per esempio è migliore come razza nel Vallo di Diano dove i terreni sono più pianeggianti e pascolano nei campi di erba medica che d’inverno non vengono sfalciati. E’ più produttiva, ma è un animale pure più grande, meno adattabile ad arrampicasi in collina e montagna. La comisana è quella che più si potrebbe adattare.
AS: C’è chi dice che in questi ultimi decenni si è rotto l’equilibrio, la simbiosi che c’era tra l’agricoltura e la zootecnia, nel senso che una volta gli ovini e caprini pascolavano molto sotto gli ulivi e quindi fornivano letame, arricchendo il terreno e nello stesso tempo facendo pulizia delle erbe infestanti. Queste pratiche sono state abbandonate, secondo te, perchè si è ridotto il numero degli ovini e caprini o perché i proprietari degli uliveti hanno abbandonato di fatto gli uliveti, cioè se ne occupano veramente poco
DC: Un po’ e un po’, ma soprattutto perché sono stati abbandonati gli uliveti, perché se non non viene fatta la manutenzione degli oliveti, solo gli animali non riescono ad estirpare tutte le erbe infestanti. Quindi, man mano il territorio libero dalle erbe infestanti si è andato al ridurre. Prima lavoravano gli animali a pulire, poi quello che restava lo puliva l’uomo perché gli necessitava per coltivare gli uliveti. In questo modo si manteneva un pascolo ideale per gli animali. Questo non è stato più fatto. Gli animali un po’ si sono ridotti, ma soprattutto sono stati abbandonati, per cui i terreni e i rovi e la macchia mediterranea avanzano, e non c’è pascolo. Poi, dove rimane un po’ di pascolo abbiamo il problema dei cinghiali che distruggono e quindi si riduce ancora di più la superfice pascolabile.
AS: Se ci fosse una maggiore rotazione tra i pascoli che vengono dati in fida pascolo ai bovini e quelli dati agli ovini e caprini forse questo delle piante infestanti potrebbe essere contenuto.
DC: Sicuramente perché si adattano a pascoli e a colture erbose diverse. Quindi, facendo una rotazione, con un pascolo intelligente, si potrebbe aumentare la superficie pascolabile e ridurre la parte delle piante infestanti. Ci vuole anche la mano dell’uomo perché in alcuni casi è troppo e c’è bisogno di pulire, di rimettere in coltura dei terreni per poter renderli i produttivi e per fare un po’ di fieno nei periodi primaverili dove sicuramente la produzione di foraggi è più rigogliosa, per cui una parte si potrebbe dedicare a fare il fieno per il periodo invernale.
AS: Ti chiedo quale è la tua capacità/possibilità di ragionare con gli allevatori rispetto alle modalità di allenamento e di alimentazione. Riesci a costruire una relazione in cui c’è uno scambio, in cui ti viene riconosciuto un ruolo che non è solo quello di curare un animale quando sta male per intenderci o farlo partorire quando deve partorire, ma anche una consulenza di più ad ampio respiro, dove si ragiona sul tema del benessere animale, ma anche su un certo tipo di alimentazione rispetto alle produzioni che si vogliono raggiungere.
DC: Si riesce soprattutto con buona parte dei giovani. Quelli radicati nel vecchio sistema non li si smuove. Puoi cercare di convincerli in tutte le maniere, fargli tutte le proposte possibili, gli esempi pratici valutabili, ma non li smuovi. Con i giovani è diverso. Molti ascoltano e poi vedono i risultati e quindi sono più invogliati a produrre e si riesce a ragionare sia dal punto di vista dell’alimentazione sia del benessere per una corretta gestione della mandria che può portare a una maggiore produttività e a minori problemi dal punto di vista della salute degli animali che, quindi, portano meno spese. Questo per lo più con i giovani si riesce a fare
AS: Quindi, questi giovani ci sono. Sono giovani che hanno studiato oppure sono giovani che si sono diplomati, che hanno fatto la scuola dell’obbligo e basta?
DC: Sì, sì, per lo più hanno fatto la scuola dell’obbligo e basta e poi hanno continuato le attività che era dei genitori. Hanno continuato le attività che già svolgevano, in realtà, mentre facevano la scuola dell’obbligo, perché questi cominciano da piccolissimi ad andare con il genitore.
AS: Ma, loro sono interessati a fare solo i “pastori” oppure anche a fare l’azienda, a mettere in piedi il caseificio aziendale, il piccolo macello aziendale, ossia delle attività che vanno oltre il pascolamento degli animali.
DC: Per lo più la maggior parte di questi che frequento io fanno il pascolamento. Già di sbrigare le pratiche burocratiche e amministrative gli porta un peso, perché quello che vogliono fare, che gli piace fare è questo. Giustamente anche la gestione dell’azienda. Il caseificio aziendale è già una cosa meno probabile, perché per lo più oramai per come ti dicevo, nella cilentana si è preferito più la selezione per i caratteri morfologici che quelli produttivi, puntano più sui capretti e, quindi, poco sul latte. Quello che potrebbe essere un macello aziendale sì. Potrebbero essere dei ragazzi che vogliono continuare anche da questo punto di vista e, quindi, poter produrre e potere macellare gli animali in azienda e vendere direttamente al consumatore senza passare attraverso dei grossisti o i macellai che in realtà non riconoscono un giusto prezzo al loro prodotto.
AS: Ci sono questi grossisti napoletani che vengano e per quattro soldi si comprano le produzioni. Su questo bisognerebbe anche ragionare con le macellerie e la ristorazione locali, perché una cosa che ho sempre notato è che capretti come gli agnelli ci sono solo in brevissimi periodi dell’anno – sotto Pasqua -, ma generalmente non sono più trattati. Se il territorio ha questa vocazione non si capisce perché nella gastronomia del territorio non vengono inserite abitualmente la capra e la pecora. Non esiste solo la bistecca di manzo o del maiale
DC: Ho notato parlando con questi giovani che quello sul quale sono tutti d’accordo a farlo è più che fare una cosa singola, della singola azienda, che poi non riuscirebbero a gestire come tempi, è fare qualcosa insieme, gestita da un ente superiore che potrebbe essere in questo caso il comune oppure la Comunità Montana. Fare un caseificio che raccoglie gli allevatori della stessa zona o anche il macello che raccoglie allevatori di una determinata zona, in modo che loro possono portare il loro prodotto, macellarlo e poi venderlo direttamente loro. Questo è quello a cui sarebbero più propensi, più che farlo singolarmente, perché poi è anche una questione di tempo, o ti dedichi agli animali o alla produzione. E’ vero che è a conduzione familiare e quindi i vari membri della famiglia potrebbero dividersi i compiti, però poi non sempre è così perché potrebbe essere che la moglie fa un altro mestiere e quindi non riescono a gestirlo a livello familiare. Sarebbero più propensi a fare una cosa in associazione. Però, secondo me, ci vuole sempre un ente superiore perché da soli non riuscirebbero a coordinarsi
AS: So che c’è il comune di San Giovanni a Piro dove il sindaco ha deciso di mettere a disposizione uno spazio per fare un caseificio. Non so a che punto sia la questione, ma mi sembra un’iniziativa interessante, proprio perché uno può anche soltanto conferire il latte e magari ritirare i formaggi oppure lasciare anche i formaggi per la rivendita. D’altra parte, c’è anche l’aspetto della cura del mercato che non è secondario. Se il caseificio mette insieme le produzioni di più allevatori si raggiungono anche delle quantità che consentono di andare su un mercato più ampio che non sia solo quello dei confini comunali, magari è quello della costa, degli alberghi e della ristorazione. Poi, magari anche Napoli e Salerno, però il Cilento nel suo complesso con i suoi milioni di presenze d’estate che mangiano tutti i giorni. Se la ristorazione e l’ospitalità utilizzasse di più questi prodotti non ci sarebbe nessun problema di mercato per questi allevatori.
DC: Non per difendere i ristoratori, però al momento procurarsi un prodotto locale non c’è nemmeno dove andarlo a reperire. Le aziende locali, per prodotti come i capretti, vendendo a dei grossisti e non avendo una rete locale di vendita, i ristoratori si debbono sempre riferire sempre ai grossisti. Però, il grossista non è che compra solo qua, compra da per tutto, quindi garantire che sia il prodotto locale è un po’ difficile. Non si può pensare che il ristoratore possa acquistare, per dire, 5 capretti da un allevatore per poi portarli al macello, farli macellare e portarseli al restaurante. Sarebbe un costo enorme solo di trasporto e macellazione. Ci vorrebbe una struttura del genere per valorizzare il prodotto locale perché i ristoratori anche volendo non hanno dove andarlo a reperire, in realtà.