Benito Tomeo, decano dei veterinari del Cilento, racconta la storia degli ultimi 40 anni della zootecnia cilentana, facendo emergere tanti fattori di debolezza, tanti errori fatti, tante sconfitte subite, ma anche qualche segnale di innovazione e speranza per un nuovo impegno.
Alessandro Scassellati (AS): Salve a tutti. Siamo con Benito Tomeo. veterinario di grande esperienza che da decenni batte il territorio del Cilento, lavorando a stretto contatto con le aziende della zootecnia. Benito ti chiedo di provare a ragionare sul territorio del GAL Casacastra, i nostri 28 comuni, soprattutto in riferimento al ruolo che la zootecnia occupa in questo territorio, tenendo presente nell’analisi le differenziazioni tra allevamenti di bovini, ovini e caprini. Storicamente, gli allevamenti ovicaprini hanno avuto la parte più rilevante, mentre negli ultimi anni è cresciuto il numero dei bovini.
Benito Tomeo (BT): Sono un medico veterinario e ho sempre fatto il libero professionista. Ho girato tutto il Cilento e forse sono uno dei pochi che conosce il Cilento della costa e dell’interno, avendo clienti da una parte dall’altra e altre volte l’ho girato solo per piacere.
Partiamo da un concetto: il Cilento è soprattutto una zona per ovicaprini. I bovini erano pochi e c’erano le vecchie podoliche, non quegli animali, quegli incroci ignobili che hanno fatto oggi. Purtroppo ci sono stati gli incentivi e molti di questi pastori non mungono neanche i bovini perché tanto di perdere tempo a fare il caciocavallo non ne hanno voglia. Ci sono tutti quei soldi che si recuperano dallo Stato, dall’Europa e dalla Regione perché perdere tempo a fare dei caciocavalli?
C’è chi invece l’ha sempre fatto per tradizione familiare, continua a fare il caciocavallo. Di fatti, assaggiando il caciocavallo dei nuovi pastori o i caciocavalli di chi è vaccaro – poi farò la differenza tra vaccaro e allevatore di bovini – si vede che il caciocavallo dei vaccari è di gran lunga superiore a quelli che si sono improvvisati allevatori.
Vengo alla cosiddetta capra cilentana, una razza che non è mai esistita. Questa è stata una invenzione dell’Università, di qualcuno che ha voluto selezionare questi animali che ci sono, ma che sono una popolazione. Non è una razza perché la cosiddetta capra cilentana è un coacervo di razze incredibile. Là dentro c’è di tutto, anche se adesso con la storia che stanno facendo una selezione, fatta abbastanza bene, non proprio benissimo, si stanno mantenendo quelle caratteristiche che dicono che abbia la capra cilentana. Già questo è un passo avanti. Stanno spingendo un pochettino di più sul latte, ma c’è ancora parecchio da fare.
Ritornando ai bovini, il bovino che era più presente, il podolico, quello puro fa parte dell’unica razza che è divisa in A e B. La A è quella cilentana piccola, poco più grande di una capra e che era adatta a questi pascoli poveri e scoscesi. Una vacca di grosse dimensioni come può essere anche la Chevrolet o comunque un animale di grosso peso, nei nostri pascoli non va bene, perché queste vacche possono franare in basso e morire. Mi è successo diverse volte. Per questo gli allevatori preferiscono tenerli in un recinto abbastanza vicino casa, perché hanno una paura motivata dal fatto che sono animali di gran peso e che possono veramente incorrere in incidenti.
Poi, c’è la podolica di tipo B che è quella calabrese. In Calabria i pascoli sono più ricchi, sono diversi i terreni rispetto ai nostri. Però, la podolica di tipo A è quella più vicina alla podolica che è arrivata qua insieme con i barbari durante le invasioni barbariche. E’ arrivata qua dalla Podolia, che è una regione del l’Ucraina. Se andate a vedere sulla cartina geografica dell’Ucraina, troverete Podolia. Da lì arrivano queste vacche che oggi abbiamo qui. Erano piccole. Erano bovini che andavano al seguito di queste orde barbariche che praticamente si portavano la carne con loro. Quando ne avevano bisogno le macellavano e poi per frullare la carne la mettevano sotto le selle, che così si frullava meglio, si ammorbidiva.
Devo dissentire riguardo ciò che ha detto nell’intervista Maurizio Tancredi. Dovete sapere che nel latte della podolica c’è una proteina nobile che è presente soltanto nella carne e nel latte della podolica e dello zebù. Le borsette delle signore, quelle che costano più di tutte, sono fatte di pelle di podolica, perché è molto resistente ed elastica, proprio perché è un animale abituato a vivere alle intemperie. Con un allevatore abbiamo provato a tenere stabulate le podoliche, quelle nostre, quelle piccole con le corna a lira, ma non ingrassavano, anzi dimagrivano, forse colte dalla nostalgia dei loro pascoli e di questi orizzonti sconfinati che avevano davanti agli occhi. Quindi, la podolica di tipo A è un animale che è fatto così.
Il ceppo B, invece, quello selezionato in Calabria e anche in Puglia e Basilicata, adesso sono animali più grandi e producono molto latte. Il latte della podolica è molto ricco di grassi. Se infatti mangiate un caciocavallo di podolica lo vedete che è completamente giallo, ma proprio un giallo intenso.
La nostra capra, la cosiddetta cilentana, è una capra che dentro ha la garganica. Ripeto le nostre capre sono una popolazione. Di fatti, è molto facile trovare in queste greggi di capre cilentane, tra tante virgolette, delle capre che hanno le orecchie corte, cortissime perché evidentemente quella capra ha qualche nonna, bisnonna, qualche ava che è stata una delle prime capre di saanen che sono arrivate qui da noi nei primi anni sessanta e avevano le orecchie cortissime, mozze praticamente. E’ facile trovarle. Questo sta ad indicare il fatto che la nostra capra cilentana è un coacervo di razze.
Le pecore. Ho avuto la fortuna tanti anni fa, 40 anni fa, in una delle mie prime esperienze da veterinario, di andare a visitare delle pecore a Cannalonga che erano piccole, microscopiche, quasi senza mammella, che saltavano come caprioli e quelle erano le pecore che erano della zona. Poi, hanno immesso altre razze. Sono andati a prendersi la comisana, la sarda, qualcuno addirittura le pecore del nord, perché facevano più latte. Le vecchie razze si sono andate perdendo. Nella zona dell’avellinese le vecchie pecore sono rimaste, ci sono dei nuclei, invece qui da noi è stato bruciato tutto.
AS: Non ci sono anche le bagnolesi?
BT: Esatto. Ci sono dei buoni nuclei di bagnolese, ma qua preferiscono avere la comisana che è una pecora molto grande che purtroppo nei nostri pascoli non va bene e quindi non è il pascolo che deve essere integrato, ma è il pascolo che integra la somministrazione di mangimi di vario tipo. Questo avviene anche per le bovine che ci sono qua da noi, quelle più grandi, che devono essere aiutate con mangimi. Maurizio Tancredi, nell’intervista che ho visto, parlava di un ottimo caciocavallo a Caselle in Pittari fatto con latte di bovine jersey. Ma, noi non abbiamo niente a che spartire con le bovine jersey, perché queste sono generalmente allevate rigorosamente in stalla. Hanno giusto qualche paddock davanti, ma niente di più. Quindi, tutti quei flavor, come dicono quelli che parlano bene, che dovrebbero avere i formaggi, perché sono di animali allevati al pascolo, non ce l’hanno. Lavorano bene. Lì il merito è del casaro che sa fare un ottimo formaggio, ma quel formaggio non avrà mai i sapori degli animali allevati al pascolo.
Ho un cliente giù a Marina di Camerota che quando mi dà i suoi formaggi – lui ha capre e bovini – nel caciocavallo o nel formaggio caprino si sente anche il lentisco. Nelle bovine allevate in stabulazione, là non sentirai il profumo del lentisco. Sono tutte cose che ormai, facendo questo tipo di allevamento, si perdono.
Allora, dobbiamo decidere cosa vogliamo fare. Fare degli ottimi formaggi con delle bovine o delle capre o delle pecore semi stabulate o vogliamo riguadagnare quei sapori di una volta. In quest’ultimo caso dobbiamo usare latte di animali al pascolo. Questa è una cosa fondamentale e, secondo me, questa è la strada.
E’ chiaro che se si vuole pagare il formaggio, il caciocavallo di animali al pascolo, allo stesso prezzo degli animali stabulati, non ci siamo!
AS: Tu hai raccontato di un’esperienza che hai fatto 40 anni fa. Ecco, tu che hai vissuto su questo territorio da veterinario, vedendo questa evoluzione, come tecnico come hai fatto a gestire questa relazione con i tuoi clienti? Ora, hai fatto delle valutazioni piuttosto negative rispetto al fatto che sono stati prodotti animali o comunque fatti degli incroci che hanno stravolto le tipologie di animali presenti sul territorio, perché si è puntato sull’incremento della dimensione degli animali, sull’incremento della produzione del latte o della carne a scapito però di un adattamento ad un contesto ambientale, territoriale, orografico degli animali presenti. La mucca di grandi dimensioni sul terreno scosceso rischia di farsi male, ad esempio. Te lo domando, perché immagino che questa tua valutazione critica non sia solo di adesso, ma tu l’abbia maturata nel tempo e, quindi, che tu abbia anche provato ad intervenire, a cercare di convincere, di far capire ai tuoi interlocutori, che sono poi i tuoi clienti… Ti domando come hai vissuto questa evoluzione drammatica dal tuo punto di vista, ossia di una persona che è un veterinario che sa tante cose e che vede i suoi clienti imboccare una strada che non è la strada giusta? E’ la strada che ti porta poi in un vicolo cieco, perché attualmente il problema qual è? Sono aumentati molti bovini e c’è un problema di sovrasfruttamento dei pascoli in molte zone, per cui nascono tutta una serie di problemi a cascata che hanno a che fare con l’alimentazione, con fieni comprati altrove, perché poi non ci sono neanche i terreni dove si possono produrre i foraggi, oppure sono molto limitati. Bisogna comprare i mangimi ed hanno dei costi. Poi, si hanno gli effetti in termini qualitativi che tu citavi. Un conto è mangiare almeno sei erbe diverse con tante essenze vegetali, tra le quali c’è pure il lentisco, e un conto è mangiare un fieno che magari viene da un erba unica e dei mangimi che generalmente sono fatti di mais o di soia geneticamente modificata che viene dal Brasile o da qualche altra parte, dagli Stati Uniti o dal Canada…
BT: Dal Canada e dall’Ucraina. Io mi sono confrontato con i miei allevatori, i miei amici, perché poi da clienti sono diventati amici dopo tanti anni. Ho degli allevatori che seguo da 40 anni. Alcuni mi hanno fatto battezzare la nipote, per cui siamo diventati amici. Però, li capisco anche, perché se va il macellaio a comprare un vitello da loro, purtroppo il macellaio non vuole quel vitello là. Perciò sono stati costretti ad incrociare, perché lo stesso prezzo che si paga per macellare un bovino di sei quintali si paga per macellare un bovino di tre quintali. E questo è un primo dato. Poi, l’altro costo. La carne della podolica è di un bovino atletico, che cammina, per cui è dura. Qui, la gente non ne vuole sapere di carne frollata. Non la capiscono proprio, non sanno che la carne migliore è quella frollata. Non si riesce a farglielo capire. Mi è capitato tante volte di sentire qualcuno che diceva: “ho mangiato una bistecca ieri che ancora si muoveva quando me l’ha data”. Non ci siamo.
Quindi, loro dovevano aumentare il peso per, come dicono loro, starci con le spese. Purtroppo è vero. Io ho cercato, però, nel contempo, di fargli fare nemmeno una cooperativa, un’associazione, dove si aprivano un caseificio, dove lavoravano il loro latte, e una macelleria in modo che si vendevano i loro prodotti. Però, chiaramente il prezzo doveva essere ben diverso. La dovevano gestire loro in prima persona e non sono riuscito a metterli d’accordo, assolutamente. Sono anni che ci provo, ma non c’è niente da fare.
Poi, c’è chi, come un amico che ha dei bovini a Camerota, che si è messo ad allevare bovini, li ha aumentati e incrociati facendoli aumentare di peso, mentre il figlio ha la macelleria. Lavorano in famiglia. Macellano soltanto animali della loro azienda, però la vendita non è eccessiva, perché questa macelleria è a Celle di Bulgheria e quindi l’utenza non è poi tanta.
Questo è uno dei problemi che la macelleria, con tutto il caseificio, non si dovrebbe aprire nelle nostre zone, perché il bacino di utenza è molto piccolo. Bisognerebbe aprirli a Salerno come minimo, se non a Napoli o a Roma, addirittura. Perché poi questi prodotti nostri quando li portano in giro per l’Italia sono apprezzatissimi e vedessi la gente come li apprezza.
C’era una signora di Casaletto Spartano, donna Iole, che purtroppo non c’è più, che aveva messo a disposizione dei locali grandissimi su in montagna, a Valle Frassino, per poterci fare un caseificio dove tutti gli allevatori di pecore e di capre e anche di bovini potessero portare il loro latte. Veniva lavorato tutto quanto artigianalmente nello stesso posto e i formaggi avevano tutti lo stesso sapore. La signora è andata al SANA di Bologna. Quando l’hanno assaggiato impazzivano e c’è stato un grossista di Trieste che le ha chiesto quanti quintali gliene poteva mandare al mese. La signora si mise a ridere, dicendo che avrebbe potuto assicurare qualche quintale giusto per qualche mese e dopo basta perché le produzioni erano quelle che erano.
Allora, visto che non si possono vendere là bisogna fornirlo a dei negozi o a dei ristoranti qua dove si mangia della roba fatta bene. C’è una cliente che fa del cacioricotta eccezionale, anche se è fatto con latte di saanen istanbulate. Ma, lei l’ha mandato e lo manda a dei ristoranti a Salerno e poi c’è un cilentano che ha un ristorante a Novara e lì mangiano questo cacioricotta e lo trovano eccezionale.
Quindi, i nostri prodotti sono buoni, però sono pochi. Bisogna trovare come far capire, come educare la gente, il consumatore. Il consumatore va educato.
AS: Ho sempre pensato che se si riuscisse a costruire un rapporto tra i produttori locali del Cilento, sia dell’agricoltura sia dell’allevamento, con la ristorazione locale e soprattutto poi con la ristorazione che sta sulla costa e anche gli albergatori, il problema del mercato in realtà non esisterebbe, perché appunto come dici tu le quantità sono quelle che sono e non c’è bisogno di andare New York o a Tokyo o a Milano a vendere i prodotti. Poi, certo è chiaro che a Milano si possono spuntare dei prezzi più alti, perché ci sono persone che hanno un reddito più alto e che hanno anche una capacità di riconoscere la qualità del prodotto, una cosa che magari in Cilento viene data per scontata dai cilentani. I cilentani pensano che il cacioricotta lo possono mangiare quando vogliono e quindi non capiscono perché dovrebbe costare più di quello che è il prezzo attualmente corrente. Ma, con il prezzo corrente spesso e volentieri il piccolo allevatore non ci sta dentro, come si dice, visto che le spese sono tante. Altrimenti, deve diventare totalmente dipendente da i contributi…
BT: I contributi sono stati un toccasana per molti allevatori, però hanno rovinato molte cose, perché lì non si bada alla razza, ma al numero e basta. Poi, che tu allevi jersey o allevi podoliche, Chevrolet, Limousine o pezzata rossa…
AS: Ho parlato con Gianni Ruggiero, funzionario della Direzione Generale dell’Assessorato dell’Agricoltura e mi diceva che adesso c’è questo progetto che loro chiamano allevatore custode che è legato più alle razze autoctone. Poi, è chiaro, come dicevi tu, le razze autoctone in Cilento è difficile definirle. Però, la capra cilentana quanto meno è una popolazione autoctona che sta sta qui da qualche tempo…
BT: Se si parla di popolazione ci siamo, va bene.
AS: Loro parlano di razze. Comunque, ti volevo chiedere delle malattie e del benessere animale. Che giudizio dai delle modalità di allevamento che generalmente si trovano in Cilento? In particolare, penso al metodo tradizionale, quello semi brado.
BT: Adesso gli allevatori fanno tutti i trattamenti antiparassitari. Li fanno periodicamente, due volte all’anno. Almeno io parlo di tutti quelli che conosco io e sono tanti. E’ buono. Il benessere animale va bene, senza tanti fronzoli, perché poi comunque se perdono un animale, perdono soldi. Quindi, ci stanno attenti a questo. Hanno recepito il discorso. Gli animali sono abbastanza ben tenuti. E’ ovvio che se uno che ha il naso delicato va dentro una stalla di capre cilentane sente la puzza, che per me è un profumo, ma gli animali sono tenuti bene. In linea di massima stanno bene.
AS: Tu che conosci moltissimi allevatori, alcuni sono tuoi amici, come dicevi hai fatto anche il padrino dei nipoti, per cui hai un rapporto stretto con molti di loro, vorrei che mi parlassi dell’importanza che il settore ha per il territorio. Credo che il settore sia importante perché da una parte c’è una categoria di imprenditori, soprattutto se prendiamo le famiglie storiche di allevatori. Garantiscono una presenza imprenditoriale sul territorio. Fanno presidio territoriale, perché gli animali vanno al pascolo brado in campagna, fuori dai paesi. Producono cibo, una roba non secondaria di questi tempi, un cibo anche di grande qualità. Quindi, c’è una dimensione economica. Tutto questo per dire che credo che le pubbliche amministrazioni – dalla Regione alla Comunità Montana, dal Parco ai comuni – forse dovrebbero fornire dei servizi, che non siano solo la gestione della fida pascolo.
Forse è il caso che queste amministrazioni pubbliche riconoscano il ruolo che questi allevatori svolgono sul territorio. In altri contesti territoriali, quando le amministrazioni riconoscono il ruolo degli imprenditori, cercano di fornire loro dei servizi. Si rendono conto che l’azienda può fare tante cose, si può strutturare sulla multifunzionalità o incamerare all’interno il laboratorio di trasformazione, però poi ci sono delle esternalità, delle economie esterne che hanno a che fare con il fatto che il territorio non è organizzato in funzione della logistica o dell’offerta sul mercato, che i giovani devono essere formati sui temi della gestione aziendale per poter passare da una dimensione di famiglie che fanno gli allevatori a una dimensione più strutturata di azienda. Qui, c’è tutto il tema che in estate manca l’acqua. L’estate siccitosa è quello che si prospetta per il futuro, perché purtroppo andremo sempre più incontro a estati da 45-50 gradi. Come risolviamo questo problema? Se l’acqua non c’è allora anche il discorso della transumanza salta. Vorrei che provassi a ragionare sulle cose che si possono fare, che si dovrebbero fare in termini di servizi da fornire agli operatori di questo settore.
BT: La cosa più importante è proprio l’acqua, come dicevi. Bisognerebbe fare dei piccoli invasi dislocati lungo tutto il territorio del Cilento, dappertutto, in modo che quando l’acqua manca questi piccoli invasi possono servire per abbeverare gli animali, ma anche per spegnere gli incendi.
C’è un allevatore di Lentiscosa che porta i bovini d’estate sul Bulgheria, perché lui di solito pascola nella zona degli Infreschi, tra Camerota e Scario. Portandoli su, acqua non c’e e lui è costretto ogni giorno a portare con il trattore una cisterna d’acqua da Lentiscosa sul Bulgheria. Capisci bene che la spesa è immensa. Alla fine, veramente non ci sta. Ma, come lui ce ne sono anche altri. Portare ogni giorno l’acqua per un centinaio di bovini, ce ne vuole tanta di acqua anche considerando il caldo che fa. Di pascolo sul Bulgheria c’è poca roba, quelli veramente mangiano polvere, non so come fanno a vivere. Gli porta anche dei balloni di fieno. Questo perché giù nella zona degli Infreschi non ci può stare, vuoi perché d’estate ci sono i turisti, è una zona frequentata, vuoi perché fa un gran caldo. Ci sta tutto l’inverno. Scende a dicembre e poi sale a giugno. Non ha di che sfamare i suoi animali e quindi se li riporta su in montagna.
Ho fatto questo esempio, ma ce ne sono tanti da fare in quelle zone dove non c’è acqua. Questa è la cosa che dovrebbero fare le amministrazioni, ma la verità è che tutti i sindaci vedono gli allevatori quasi come degli elementi che danno fastidio. Per fortuna non tutti. Faccio l’esempio del sindaco di Cannalonga, dove abito, che quando io all’altro sindaco, quello precedente, avevo proposto di fare la mostra della capra cilentana – l’ho dovuta cavalcare anch’io questa, visto che Cannalonga è famosa per la fiera della capra che si fa il sabato che precede la seconda domenica di settembre e abbiamo presenza per 50 mila persone. L’ho organizzata già una volta sempre con l’aiuto di Gianni Ruggero e dell’Associazione degli allevatori della Campania, allora, oggi Campania e Molise. Mi hanno mandato l’esperto della razza cilentana per fare una piccola graduatoria. Anche il sindaco di oggi ha detto: “fai tu, sei tu il veterinario”, per cui abbiamo una zona di esposizione, con un foro boario, fatto benino anche se mancano varie cose, però piano piano faremo anche quelle. Ma questo è un rara avis, come dicono quelli che parlano bene. So di altri sindaci che per loro parlare di animali è un fastidio, perché molti allevatori, quando gli animali hanno fame, partono in quarta e se c’è una vigna ci saltano dentro, la distruggono. Allora, è più facile ascoltare le lamentele del viticoltore che le lamentele dell’allevatore.
Sono tante piccole cose. Non ci vorrebbe molto per mettere a regime l’allevamento ovicaprino e bovino e per farlo fruttare, perché 40 anni fa mi trovavo di fronte a dei vecchi che avevano la mentalità dell’Ottocento e mi rispondevano sempre: “dottò, come ha fatto mio padre ha fatto mio nonno e faccio pure io”. Di fronte a una cosa del genere non hai spazio, non hai molti argomenti. Invece, oggi hai di fronte dei ragazzi, anche ventenni. Ce ne è uno che è arrivato da poco qui nella mia zona. E’ un ragazzo di 25-26 anni che con il genitore se ne è andato a lavorare in Germania, guadagnando anche bene con un ristorante. Lui se ne è tornato qui. Gli ho chiesto cosa fosse venuto a fare e mi ha detto: “dottò, le vacche so’ n’altra cosa!” E se n’è andato vedere le vacche. Si è comprato dei piccoli nuclei e sta cercando di fare qualche cosa.
Se ne comincia a trovare molti che vorrebbero ritornare, ma vorrebbero anche una garanzia, non dico di fare guadagni mostruosi, ma il giusto per vivere e ogni tanto togliersi qualche sfizio anche loro. La possibilità c’è però devono essere guidati e dico sempre che per me è stata una fortuna incontrare Gianni Ruggiero perché lui mi ha aiutato in molte iniziative. Quando dico delle cose, mi lamento di questo o di quello, Gianni mi dice che c’è passato anche lui. Ci diamo consigli a vicenda per cercare di superare questi ostacoli. Le possibilità ci sono, però bisogna tenersi alla larga da certi soggetti che parlano un pochettino troppo e che invece lo fanno solo per guadagno, non ascoltano consigli e vanno avanti per conto loro. Di solito, questi sono quelli che contano. Bisognerebbe tenerli un po’ a bada.
AS: Per chiudere ti volevo sottoporre due questioni veloci. Una è il tema della macellazione di questi animali, perché uno dei ragionamenti che stiamo facendo all’interno del progetto è questo, anche anche sulla base di quello che gli allevatori ci dicono. Stiamo cercando di applicare e diffondere il Metodo Nobile che mira a riportare ad un 70/30, invece del 30/70. Ossia, ritornare a un pieno utilizzo delle erbe e dei fieni, riducendo il più possibile la parte di mangime. Farla diventare un integrazione, ma non la base su cui si costruisce il menù dell’animale. Per questo tutto il discorso sul semi brado è molto interessante e si inserisce pienamente all’interno di questo ragionamento. Però, una volta che l’hai allevato, se devi macellare l’animale, lo devi caricare sul camion e deve fare magari 50-60 km. Tu sei un veterinario e sai bene cosa significa in termini di stress per l’animale e cosa significa in termini di acidi lattici e adrenalina che entrano in circolo e gli effetti che questo ha in termini di acidificazione della carne. Hai fatto tutto questo lavoro e rischi che venga distrutto alla fine, con la macellazione che sul territorio non si può fare. Bisogna andare nel Vallo di Diano o a Santa Maria di Castellabate.
BT: Chi sta al centro del Cilento, per esempio, a Camerota o a Centola si trova equidistante da Santa Maria di Castellabate e da Buonabitacolo. E’ chiaro che tu carichi l’animale sul camion e lui subisce lo stress, poi fa il viaggio, poi scende e dopo un poco lo macellano. L’ideale sarebbe quello di portare l’animale al macello, però tenendolo nella stalla di sosta per un giorno o due, e poi avviarlo al macello, così non ti trovi tante porcherie dentro la carne.
AS: Tu non pensi che tra le iniziative che le amministrazioni locali potrebbero fare, si potrebbe ritornare a ragionare sulla macellazione sul territorio?
BT: Come no. Adesso si apre una parentesi un pochettino amara per me. Perché in Veneto c’è il macello aziendale? Perché è possibile farlo e qua no? Si potrebbero avere dei piccoli locali, a norma ovviamente, dove macellano quei 2-3 macellai di paesi vicini, dove non c’è un grosso afflusso. Gli animali possono arrivare con calma, si fermano, senza andare di corsa. Si macellano quei 2-3-5 animali alla settimana, senza dover andare in questi grossi macelli. Al nord è possibile fare queste cose, qua no. Perché? E’ una domanda che ho fatto molte volte, ma non ho mai avuto una risposta seria che mi abbia convinto.
AS: Anche perché ci sono delle ditte, ho visto ad esempio che c’è una ditta marchigiana, ma ce ne sono altre, che dentro un container fanno un micro macello, come fanno anche un micro laboratorio per la trasformazione del latte, un micro caseificio. Sono delle strutture mobili che potrebbero risolvere tanti problemi, perché appunto non è che stiamo parlando di tanti animali, ma di poche centinaia di animali che vengono macellati, almeno se parliamo dei bovini, in un anno.
BT: Pensando alle istituzioni, devo dire che il Parco è completamente assente. Nel 2000 e nel 2002 ho lavorato al Parco. Eravamo tre veterinari e avevamo costituito l’osservatorio epidemiologico della fauna selvatica, però ci interessavamo anche di altro, ovviamente. Avevo fatto io le linee guida del QaliParco, poi il collega che io chiamavo il capo le aveva scritte bene, anche con l’aiuto del senatore e avvocato Castiello. E’ stato poi messo in piedi, ma non è venuto fuori niente, perché non hanno saputo applicare le nostre riflessioni. Noi avevamo fatto un disciplinare su come doveva essere allevato l’animale, come e cosa doveva mangiare, a che cosa doveva sottostare. Allora eravamo riusciti a fare queste cose, perché all’inizio il presidente del Parco era il professore La Valva, che era un biologo e una persona eccezionale, splendida, stupenda, che poi ha deciso di andarsene perché la politica in questo Parco forse la faceva da padrone. Quindi, tutti questi progetti sono andati a cadere, ma il Parco continua ad essere latitante. Si interessa di altro, ma non certo della fauna selvatica e domestica che c’è in giro qua da noi.
Poi, ci sono le Comunità Montane che hanno anche altre cose da fare. I comuni, l’abbiamo detto. Sono le istituzioni da convincere che bisogna impegnarsi su queste cose.
AS: Se ti può confortare, il capofila di questo progetto è la Comunità Montana Lambro, Mingardo, Bussento e Alburni. Questa ricerca che sto facendo ha l’obiettivo di aprire un confronto con gli allevatori e ha l’obiettivo di produrre una sorta di piattaforma programmatica con l’indicazione di una serie di cose che si possono fare senza dover fare la rivoluzione perché tanto in Cilento, lo sappiamo dal 1828 e dal fallimento di Pisacane, la rivoluzione non si può fare, ma forse alcune cose, anche piccole, nella forma di servizi agli allevatori o di piccoli interventi che possono risolvere alcuni problemi. Credo che la politica dovrebbe tornare ad affrontare i problemi e cercare di risolverli…
BT: E basta soldi! Bisogna dargli idee e supporto.
AS: Ricordo che il presidente della Comunità Montana con questo progetto alla fine ha l’intenzione di mettere in piedi una sorta di Consulta degli Allevatori del territorio della Comunità Montana, con l’impegno di fare da accompagnatore a questo percorso di dialogo tra gli allevatori e tra gli allevatori e le istituzioni. Ragionare sui bisogni, partire dai bisogni degli allevatori, cercare di mettere insieme una piattaforma, ossia qualcosa che interessa un po’ a tutti, con qualche intervento incisivo. Noi siamo impegnati a cercare di fare un lavoro serio per far emergere le istanze in maniera tale che ci sia effettivamente una piattaforma programmatica su cui si può imbastire una concertazione o comunque una discussione pubblica tra gli allevatori e le istituzioni.
Per questo ti ringrazio molto perché il tuo racconto che mi ha fornito parecchi spunti su cui lavorare e riflettere. Pensiamo che sia importante tenere aperto questo confronto anche con le figure tecniche che lavorano all’interno di questo mondo della zootecnia, perché pensiamo che non sono solo gli allevatori, ma tutto il sistema che deve fare un passo in avanti. Per questo parliamo con i veterinari come te, con gli agronomi, con chi fa rappresentanza e quindi con chi lavora dentro i centri di assistenza agricoli e le associazioni. Insomma, pensiamo che bisogna fare in modo che un tentativo lo si faccia tutti insieme.