Michele Cerrato, ricercatore di Economia Agraria del Dipartimento di Farmacia dell’Università di Salerno, delinea il quadro dell’evoluzione storica e l’importanza attuale del settore zootecnico cilentano, identificandone le caratteristiche salienti e le tendenze evolutive. Particolare attenzione viene data al “quasi distretto” zootecnico che fa capo al comune di Casaletto Spartano e alla presenza dei giovani nel settore.
Alessandro Scassellati (AS): Salve a tutti, oggi siamo con il professore Michele Cerrato, ricercatore del Dipartimento di Farmacia dell’Università di Salerno e insegna Economia Agraria. Insieme con il professor Cerrato siamo impegnati, all’interno del progetto Nobili Cilentani in un’attività di ricerca sul campo con gli allevatori. La ricerca è partita e ora stiamo ultimando la definizione de campione di 40/50 imprese. Vorrei Michele che tu ci parlassi dell’importanza che ha per il territorio del GAL Casacastra, e più in generale per il Cilento, il settore dell’allevamento. Un settore che è presente più o meno in quasi tutti i comuni del territorio, però con delle variazioni. L’importanza di questo settore si da un punto di vista ambientale, di presidio del territorio con, ad esempio, la funzione anti incendio, la pulizia del bosco, il controllo dell’erosione dei terreni e così via, sia dal un punto di vista imprenditoriale ed economico, e soprattutto in termini di produzione di cibo, perché stiamo parlando di persone che sono impegnate nella produzione di cibo. Prego, Michele.
Michele Cerrato (MC): Salve a tutti. In risposta a quello che ha detto Alessandro in questo momento, potrei dirvi semplicemente questo che la zootecnia in Cilento è un’attività economica estremamente importante e notevolmente diffusa, anche se abbiamo visto attraverso i dati dell’anagrafe zootecnica che esiste una concentrazione in alcuni comuni dove, praticamente, questa diviene un’attività trainante per l’intera economia comunale.
L’area oggetto della nostra indagine è il territorio del GAL Casacastra. Sono 28 comuni che fanno parte della Comunità Montana Lambro, Mingardo e Bussento, nel sud della provincia di Salerno. Un territorio estremamente difficile per l’orografia, estremamente complesso per lo sviluppo economico data la natura del terreno e i problemi legati alla viabilità. Sono comuni spesso molto piccoli e piccolissimi. In alcuni casi raggiungono a malapena i 500 abitanti, caratterizzati da un invecchiamento della popolazione e da una migrazione dei giovani.
L’agricoltura che si pratica in questo territorio però ha radici abbastanza antiche e da quella parte, da quel tempo noi possiamo ancora avere delle risposte a quelle che sono le problematiche che tuttora riguardano l’agricoltura, in generale, e poi vediamo la zootecnia in particolare. Per capire cos’è l’agricoltura in generale, ma ci soffermiamo sulla zootecnia quel territorio, la parte più meridionale della provincia di Salerno, ci dobbiamo rifare a qualcosa di precedente, per avere un confronto. Possiamo dire che per avere un’idea delle problematiche che riguardano l’agricoltura e la zootecnia attuale occorre uno sguardo storico di lungo periodo dal quale si evince che il Cilento è un territorio dove l’attività agricola è stata sempre commisurata all’autoconsumo e anche la zootecnia. Basta pensare che va al mercato, e per lo più al mercato locale, quella parte eccedente l’autoproduzione. Questa bene o male è stata la linea guida che ha caratterizzato l’agricoltura fino agli inizi degli anni novanta del secolo scorso. Quindi, non abbiamo una cultura d’impresa notevolmente diffusa. Se voi pensate che nel lontano 1954, ma non molto lontano, la zootecnia di quel territorio era caratterizzata da un allevamento per uso strettamente familiare sia nel caso dei bovini sia degli ovini e caprini. I suini erano quasi esclusivamente appannaggio dell’autoconsumo. Poca era la produzione che veniva commercializzata. Questo era il modello. Tranne qualche piccolissimo caso dell’allevamento bovino nella zona pianeggiante di Ascea, a seguito della riforma, l’allevamento medio dell’azienda agricola cilentana era costituito da uno al massimo di 2 bovini, generalmente quasi esclusivamente di ceppo podolico. Un animale che veniva utilizzato spesso anche per il lavoro. Quindi, non c’era un vero allevamento bovino. Quello che c’era era ancorato all’azienda e alla forza motrice. Stiamo parlando di circa 70 anni quindi non di un tempo molto lungo. In quel periodo anche l’allevamento caprino e ovino aveva una dimensione media piccola. Generalmente dai 20 ai 30 capi. Raramente si avevano greggi che superavano i 600 capi. Questo perché la natura del terreno e la bassa disponibilità di alimenti non permettevano delle greggi più numerose, nonostante che era pratica diffusa operare la transumanza durante i diversi periodi dell’anno. Quindi, vedete addirittura l’allevamento caprino era legato proprio alla famiglia, nel senso che, mentre le vacche e le pecore vivevano fuori dal centro abitato, le capre vivevano nel centro abitato e dove ogni famiglia allevava 1 o 2 capi proprio per il proprio fabbisogno. C’erano piccole greggi di 10-15 animali che venivano allevati nei centri abitati e servivano per la fornitura di latte fresco per quelle persone che non avevano la possibilità di avere un allevamento.
Questo modello basato sull’autoconsumo, molto primitivo, legato a un’agricoltura di sussistenza praticamente si è protratto fino addirittura alla fine degli anni ottanta. A metà degli anni ottanta, la zootecnia del Cilento aveva ancora in gran parte questo carattere. Era una zootecnia tutto sommato non specializzata. Queste dimensioni numeriche non permettevano la specializzazione, la nascita di un concetto di impresa zootecnica, gli animali erano legati all’azienda agricola e lo dimostra il fatto che tutte le attività fatte dagli anni ’50 agli anni ’60 sulla zootecnia non hanno riguardato l’ammodernamento o il potenziamento o la nascita dell’impresa zootecnica, ma hanno riguardato la produzione di foraggi, il miglioramento della foraggiatura, poiché erano convinti che si poteva incidere non tanto sul migliorare l’organizzazione quanto sulla produttività dei capi che si poteva fare attraverso il miglioramento dell’alimentazione.
Questa integrazione tra l’attività zootecnica, l’allevamento e l’attività agricola era un connubio perfetto perché permetteva agli agricoltori di avere un po’ di prodotti dell’allevamento, anche le galline. L’allevamento avicolo era notevolmente diffuso, ma era legato strettamente a quelle abitazioni che erano localizzate fuori dai centri abitati, le cosiddette case sparse. Lì c’era un po’ di produzione di uova e spesso venivano anche commercializzate, almeno quelle eccedenti i fabbisogni familiari. Questo è il quadro da cui siamo partiti.
AS: Quindi, questo è il quadro di partenza fino a dentro agli anni ‘80-’90. Poi, da allora cosa è successo? C’è stato un cambio di passo?
MC: Dagli anni ’90, più o meno, abbiamo assistito nell’ambito della zootecnia ad un cambio. Un cambio che già lo dimostrano l’intervento pubblico, le attività fatte dagli ispettorati agrari e dalla Cassa per il Mezzogiorno che trovano nel comune di Casaletto Spartano un punto chiave per lo sviluppo di attività economiche nell’attività zootecnica. Cosa si è verificato? Mentre si è diversificata la produzione, per cui l’allevamento bovino incomincia sempre di più a prendere dei connotati di attività zootecnica specializzata, mentre l’allevamento ovicaprino risente ancora di quel concetto di essere legato all’attività e ai fabbisogni aziendali. Cioè, vediamo ancora notevolmente diffusi sul territorio greggi che hanno una consistenza inferiore ai 50 capi, che non sono delle vere e proprie attività, ma possiamo definirle degli hobby notevolmente impegnativi. Ci sono persone che spesso lo fanno perché gli piace fare questo, perché hanno generalmente la coltivazione dell’olivo e quindi hanno un po’ di gregge, hanno l’orto familiare. Per cui questo gregge si integra in quel concetto di azienda agricola legata all’autoconsumo. In molti casi, la presenza di questi animali viene favorita dagli incentivi e dalle sovvenzioni pubbliche. Pertanto, persiste nel settore ovicaprino ancora questo modello del piccolo allevamento.
Il settore bovino invece incomincia ad avere uno sviluppo particolare. Uno sviluppo che non ha avuto, a mio parere, nessun input dall’esterno se non quello prodotto dalla riforma della PAC attraverso le sovvenzioni legate ai vari piani di sviluppo regionale, i famosi PON, POR, PSR.
Negli anni ’90 decolla Casaletto Spartano, che è un comune interessantissimo dal punto di vista zootecnico, perché è l’unico comune che tuttora fa da traino a una zootecnia di un territorio molto importante che comprende i comuni di Tortorella, il comune che ha più bovini che abitanti, e di Caselle in Pittari. E’ come se si fosse costruito un “distretto” zootecnico e dove l’attività da reddito ormai produce un certo numero di unità. Questa cosa che non la troviamo in altri comuni del Cilento, se non qualcosa a Camerota e a San Giovanni a Piro. Però, Camerota e San Giovanni, che sono molto diversi dal punto di vista orografico ed economico da Casaletto Spartano, Tortorella e Sanza, cioè da quell’area che è il cosiddetto osso più spolpato secondo le parole di Rossi Doria. Pertanto, è interessantissimo capire cosa è successo in quel distretto o anche possiamo dire distretto-territorio del Cilento che ha fatto sì che l’allevamento bovino, esclusivamente da carne, e dove la produzione del latte è un sottoprodotto, quando esiste, dell’allevamento da carne. Perché non abbiamo una produzione di latte. Questo anche data la difficoltà del trasporto dovuta alle problematiche dell’isolamento geografico.
Quindi, noi ci aspettiamo, in una seconda fase del lavoro, di identificare in quel territorio di Casaletto le leve che hanno fatto sì che si sia formato una sorta di distretto zootecnico tra Casaletto Spartano, Caselle, Tortorella e Sanza che interessa un certo numero di attività che probabilmente stanno intorno alle cento unità in un territorio dove la zootecnia è spesso l’unica attività economica, accompagnata poi alla natura.
AS: Ti volevo chiedere, quindi la strategia della ricerca è quella anche di andare ad approfondire un po’ questi aspetti legati alle radici e di identificare le leve su cui poi alcune situazioni territoriali come quella di Casaletto Spartano e il suo circondario, per capire se questo modello può essere in qualche misura esteso ad altre aree come quelle di Camerota e San Giovanni a Piro dove c’è un’altra concentrazione. Inoltre, la ricerca vuole identificare e fare delle proposte anche in funzione della Consulta degli Allevatori da costituire, con il presidente della Comunità Montana che vuole assumersi questa responsabilità di facilitare un riconoscimento da parte delle istituzioni di questi imprenditori. Quindi, il tema è anche quello di identificare alcune linee d’azione e di intervento che ovviamente dovremo andare a discutere con gli allevatori in prima battuta, perché dobbiamo capire anche quali sono i loro fabbisogni. Forse è giunto anche il momento che le amministrazioni pubbliche si pongano il problema di dare anche dei servizi a questi allevatori, a queste imprese, perché fino ad adesso il rapporto è sempre stato di tolleranza più che di interesse. Diciamo che spesso il rapporto è stato difficile, quasi di ostacolo in molti casi. Ad esempio, penso a tutti gli aspetti burocratici. Le istituzioni dovrebbero invece provare ad accompagnare lo sviluppo di queste aziende, fornendo loro dei servizi per rendere la loro vita migliore. Non siamo più nell’800, ma nel XXI secolo, per cui bisogna creare delle condizioni per fare un’attività legata alla zootecnia che sia adeguata ai tempi
MC: Un errore che è stato fatto e che poi ha ancora delle conseguenze sulla struttura produttiva zootecnica attuale, è che non è stata fatta nessuna azione o quando qualcosa è stata fatta, è stata limitata nel tempo. Invece, oggi abbiamo bisogno di azioni continuative. Aiutare quel fenomeno che già è nato a passare dal vecchio modello, che tanto vecchio non è. Pensate che negli anni ’90 a Casaletto Spartano la dimensione media di un allevamento bovino era di cinque capi, mentre oggi si parla di un numero molto maggiore. A Casaletto ci sono circa 700 bovini secondo l’anagrafe zootecnica, distribuiti in una trentina di allevamenti. Se togliamo qualcuno che viene allevato per autoconsumo, possiamo dire che la situazione sta diventando veramente interessante e ragguardevole. Però, fino ad adesso questo distretto si è sviluppato in modo autonomo, con poco intervento pubblico se non con le sovvenzioni, ma ora va canalizzato, va guidato. Ma, guidare questi fenomeni economici sono cose che non si possono improvvisare, perché noi ci aspettiamo che proponiamo un’azione limitata nel tempo e abbiamo una risposta a quell’azione anche quando prestazione è fatta con lo spirito e con il proposito di migliorare lo svolgimento della attività economica. Bisogna creare, mettere su uno strumento continuativo, che ha una sua attività che si protrae nel tempo e dove si affrontano i problemi di quella zootecnia che vuole lasciare alle spalle il modello dell’azienda agricola per autoconsumo e che però per fare questo passo ha bisogno di una serie di attività di servizio. Qualificare le produzioni è fondamentale, però si possono qualificare solo quando le produzioni ci sono. Per produrre c’è bisogno di attività di allevamento, c’è bisogno di allevatori. Gli allevatori possono continuare a fare gli allevatori o faranno gli allevatori solo se avranno un adeguato livello di reddito e un’adeguata qualità della vita. Altrimenti, se noi vogliamo migliorare i formaggi, ma non mettiamo in condizione un agricoltore di svolgere l’attività di allevamento, diventa un fatto monco e fine a se stesso. Quindi, l’iniziativa proposta dal presidente Speranza è lodevole. Magari potessimo avere uno “strumento” di interscambio tra le amministrazioni pubbliche e gli agricoltori, perché questo ci potrebbe permettere di conoscere meglio le loro problematiche e soprattutto la loro evoluzione. I cambiamenti climatici, la vicenda pandemica, lo spopolamento delle aree interne, il declino demografico, la crisi economica del territorio vanno affrontati in un contesto d’intervento di lungo periodo economico. Non possono essere limitati ad occasioni o ad eventi occasionali.
Con questa ricerca ci poniamo di mettere a fuoco le principali problematiche, perché si conoscono, però metterle in ordine, fare in modo anche di renderle visibili e di avere un una possibilità di conoscere la loro evoluzione, interfacciarsi con i rappresentanti delle associazioni di categoria, con gli agricoltori, con i servizi della ASL che hanno svolto un eccellente ruolo sul territorio, lodevole l’attività dei servizi agricoli che cercano di accompagnare da soli spesso questi agricoltori in un nuovo territorio che è quello di fare impresa. E’ un territorio molto complesso, molto difficile che non tutti hanno le capacità di attraversare da soli. Sono chiaro, nel senso che noi dobbiamo mettere su un qualcosa che va in questo direzione.
AS: Per chiudere vorrei che tu facessi anche una riflessione su tema dei giovani in questo settore, perché mi sembra strategico soprattutto perché, come dici tu, c’è questo tentativo di fare un salto di qualità da parte di alcuni, di passare alla dimensione d’impresa. Questo sembra un elemento fondamentale per attrarre i giovani che magari hanno anche ormai dei titoli di studio. Qualcuno è andato anche all’università e ha studiato magari scienze agrarie piuttosto che materie legate alla zootecnia e vorrebbe forse portare all’interno delle aziende familiari anche una cultura diversa, nuova, più legata alle dinamiche di gestione propria di un azienda. Ecco, tu che batti questo territorio da un po’ di tempo, parlaci di questi giovani, che non sono tanti, ma qualcuno c’è…
MC: Dobbiamo dire, usando una frase fatta, che i giovani sono il nostro futuro e i giovani che troviamo vivono nelle famiglie agricole e spesso non vedono nell’agricoltura un’attività lavorativa dignitosa né come qualità della vita né come come formazione di una soddisfazione e di un collocamento sociale, perché sono abituati spesso a confrontarsi con delle attività che operano, come dicevamo, su quel modello prevalente di autoconsumo e che per il mercato hanno difficoltà perché non hanno ancora acquisito gli strumenti. Però, ci sono dei giovani che da soli hanno fatto questo passaggio a proprie spese, perché non c’è stata mai una politica di formazione adeguata verso la nascita di questo tipologia di imprese. Come dicevo prima, un processo complesso da gestire. Comunque, sono delle attività che quando sono state fatte bene, danno degli ottimi risultati. Vediamo il ruolo che occupa la zootecnia nelle aree alpine, dove l’allevatore è una figura economica importante e ha un ruolo sociale.
Questo non sempre lo possiamo vedere nel Cilento, perché questo territorio è ancora ancorato a dei modelli diversi, come dicevamo prima. Allora, i giovani vanno incentivati, perché qualcuno che è partito da solo, ma veramente con uno sforzo notevolissimo, per fare questo salto di qualità, di organizzazione dell’attività e della propria vita, sta ottenendo dei risultati positivi. Ho visto delle realtà importanti in campo olivicolo, vitivinicolo e della zootecnia. Ma, fino ad adesso ci siamo messi nelle mani del singolo e queste esperienze hanno dato i risultati che poi l’allevatore ha costruito.
Questo non ce lo possiamo più permettere, perché noi perdiamo comunque. Il numero di allevamenti diminuisce, perché c’è bisogno di realizzare delle economie legate alle dimensioni delle mandrie e delle greggi. Lo dicevo l’altro giorno proprio ad un giovane che mi chiedeva: “ma io con cento pecore non riesco a guadagnare neppure mille euro al mese?” Gli ho detto che se pensa che con 100 pecore possa guadagnare mille euro al mese, allora chi ha 1.000 pecore dovrebbe guadagnare 10.000 euro al mese o chi ne ha 500, 5.000 euro al mese. Ma, purtroppo non è così. C’è bisogno oggi di far capire a queste aziende che il numero è importante, ma da solo non ci serve per fornire un parametro diretto
AS: Come prima dicevi tu nel caso del “distretto” di Casaletto Spartano bisogna passare ad interventi più sistematici, più integrati, fornendo servizi alle imprese. Servizi che siano legati strettamente ai fabbisogni delle imprese. Non cose astratte, ma cose molto concrete che rispondono direttamente ai bisogni, in una logica di intervento dove anche le pubbliche amministrazioni investono su questo in termini sia di risorse umane sia di cultura sia di progettualità sia anche di realizzazioni, magari con piccoli interventi legati al tema di rendere più facile la vita di questi allevatori, in modo di farli uscire dall’800 e farli rientrare nel XXI secolo.
MC: Se proponiamo che si passi dall’azienda per l’autoconsumo ad un’attività da reddito abbiamo bisogno di incentivare quel percorso che già qualcuno ha iniziato da solo e che ha dato dei buoni risultati. Questo progetto va in linea con un miglioramento della gestione delle risorse degli allevamenti, ma anche in linea con quello che è un miglioramento delle tecniche di allevamento, ma anche di produzione dei prodotti. E qui c’è tutta la parte progettuale relativa al Metodo Nobile che è uno strumento interessantissimo di tracciabilità e di qualificazione dei prodotti, soprattutto per i prodotti lattiero-caseari. Noi dobbiamo spingere con queste produzioni di qualità, ma nello stesso tempo dobbiamo organizzare le imprese dal punto di vista gestionale, perché le due cose vanno nella stessa direzione. Se noi siamo capaci di mettere su un modello di questo tipo, innanzitutto fermeremo quel fenomeno di erosione delle attività zootecniche e possiamo immaginare di far partire un nuovo modello che è quello basato su una sostenibilità ambientale ed economica nella zootecnia nel comprensorio del territorio del GAL Casacastra e che potrebbe, a mio parere, estendersi a tutta l’area montuosa del Cilento. Noi abbiamo questo compito.